Nuovo e dinamico elemento della politica bergamasca, il Movimento 5 Stelle, tra le molte innovazioni organizzative (è diviso infatti in commissioni tematiche che operano in modo indipendente, riunendosi per la scelta finale), ha deciso di utilizzare come strumento decisionale il software LiquidFeedback, sviluppato nel 2009 dal Public Software Group sulla spinta delle esigenze organizzative del Partito dei Pirati tedesco: si vogliono utilizzare gli strumenti informatici e la rete per migliorare gli attuali sistemi democratici.
Il Partito Pirata, da cui ha origine appunto questo sistema, è un movimento internazionale costituitosi nel 2006 e a cui sono affiliati movimenti diffusi in numerosi paesi. Illustre rappresentante è il partito tedesco che nelle elezioni del Land di Berlino del 2011 ha ottenuto l’8,9%, il 7.4% nelle elezioni della regione del Saarland nel marzo 2012, l’8.3% nelle elezioni statali della regione Schleswing e con il 7,5% nelle elezioni per la regione Nord Reno Vestafalia del maggio 2012. Esso ha uno dei suoi punti cardine nella trasparenza, espressa nei criteri base della Democrazia Liquida “uno vale uno” e nel sistema di delega: ognuno può decidere di affidare il suo potere di discussione e di voto ad altri membri, le deleghe si accumulano, ma possono anche essere ritirate se l’azione non è ritenuta efficace. In Italia il Partito Pirata ha un programma simile ben definito, ma non ha mai riscosso un grande successo.
Frequentando gli incontri di M5S Bergamo si viene istruiti dai volontari, tra cui Andrea Ravasio , che abbiamo conosciuto e ci ha guidati in questo mondo, in un percorso di tre serate: la prima è chiamata “PrimiPassi” ed insegna ai partecipanti ad utilizzare le piattaforme facebook, twitter e meetup (un social network per i simpatizzanti del movimento); la seconda serata trasforma un simpatizzante in “AttivistaVero”, capace di rendersi utile nelle aree tematiche di interesse, dalla viabilità alla cultura; nell’ultima serata, invece sono presentati i concetti di base della democrazia liquida, si può partecipare alla formulazione delle proposte ed alla votazione per scegliere quelle a cui dar corso a livello politico. Per conoscere meglio questa piattaforma innovativa è possibile visionare alcune slide e seguire un corso pratico di utilizzo della piattaforma.
Nella foto possiamo vedere Andrea: un vero super esperto di democrazia liquida. Il primo di settembre il M5S di Bergamo ha presentato Liquid a Brescia durante un assemblea Regionale. Il progetto è stato apprezzato da tutti i gruppi provinciali presenti e sembra destinato ad essere adottato a livello regionale: il movimento di Bergamo farà da punto di riferimento per tutti i gruppi.
Obiettivo finale, ma ancora da sperimentare, è creare un canale di comunicazione fra i cittadini ed i rappresentanti eletti nella struttura democratica, anche se a livello cittadino questo strumento non può essere adottato come processo decisionale, ma solo come indirizzo.
La tematica della democrazia liquida è stata già presentata dalla stampa (ad esempio sul Corriere della Sera del 12settembre 2012 in un articolo di Silvia Seminati) prendendo spunto dal dibattito sorto a seguito del fuori onda durante la trasmissione “Piazza Pulita” su La7 in cui Giovanni Favia, consigliere regionale del M5S, ha lamentato mancanza di democrazia nel Movimento: ovviamente chi è contro il M5S cerca di strumentalizzare l’iniziativa facendola apparire come elemento di divisione all’interno del movimento, mentre secondo gli affiliati bergamaschi dovrebbe garantire ulteriormente il principio “uno vale uno”.
Resta in ogni caso da capire se questo nuovo strumento sia veramente utile per la vita politica cittadina: il fatto che ogni commissione voti su uno specifico argomento è sì prova di democrazia, ma nella pratica del governo può essere controproducente prendere in questo modo decisioni che non seguano un indirizzo politico predefinito e sicuro e che magari risultino poi contradditorie tra loro.
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Antonio Maria Leonetti, vice-segretario provinciale Udc Bergamo
E’ indubbio che i partiti necessitino di riforme che garantiscano la democrazia interna e una maggiore partecipazione e la circolarità della classe dirigente. Ma affermare che la nuova frontiera dell’occidente sia una democrazia liquida fondata sulla divinizzazione di internet non solo non risolve i problemi ma ne crea di nuovi e accentua i limiti storici e comprovati di tutte le democrazie della storia, sottolineati da autori che vanno dall’Anonimo ateniese dell’antica Grecia fino a Italo Calvino, passando per Jean Bodin e Tocqueville. Il ruolo della Politica democratica non è quello di far decidere tutti, ma quello di guidare la collettività tenendo conto degli interessi generali e delle idee di tutti, fermi restando gli strumenti di decisione diretta come i referendum. Qui invece mi pare ci stiano vendendo non una democrazia liquida ma una democrazia inconsistente, nella quale la rete è un’entità superiore in cui tutti dicono le proprie idee e non si giunge mai a una sintesi efficace, come dimostrano le enormi difficoltà che sta vivendo il neo sindaco di Parma (a proposito, dove era la partecipazione degli internauti del movimento quando il Guru de noantri Casaleggio poneva veti sulle nomine?).
La falla del sistema non sta nel concetto di Democrazia rappresentativa, ma sta nella enorme carenza di competenze della classe dirigente di questo Paese. Il concetto di rappresentanza deve ripartire dalla capacità di rendere rappresentanti del popolo i migliori per capacità e spessore morale. E questo si può fare solo con strumenti di democrazia interna a tutti i livelli e una nuova legge elettorale che metta al centro l’elettore e non i leader dei partiti.
Giuseppe Allevi, di Assimpresa Italia
La democrazia liquida è la vera novità del M5S. E’ un metodo di lavoro che coniuga le nuove tecnologie di internet con l‘intelligenza collettiva. Quest’ultima supera sia il pensiero di gruppo che la cognizione individuale. Solitamente garantisce grande affidabilità grazie ad un metodo efficace di formazione del consenso che si adatta perfettamente alla politica. Consente alla comunità di risolvere problemi attraverso la collaborazione e l’innovazione”. Riferendosi ai possibili rischi Allevi afferma che “La democrazia partecipativa non può che portare a ottimi risulati a livello locale, anche perchè contribuisce a migliorare la consapevolezza dei cittadini e, conseguentemente, la qualità della loro vita. Il rischio è a livello nazionale dove il rischio di cadere nella demagogia e nel populismo è molto alto. Si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una funzione lineare tra dimensione del territorio ed efficacia del metodo: più il territorio è ristretto e più la democrazia liquida è efficace”.
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Questa sera diretta streaming.
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Chiara M. Battistoni – socio fondatore dell’Associazione Giancarlo Pagliarini per la riforma federale
Riflettere sul mito della cornice, alla ricerca delle radici della democrazia
Sfogliavo una raccolta di saggi di Sir Karl R. Popper (La scienza, la filosofia e il senso comune) quando l’occhio è caduto su una considerazione che mi ha colpito “Per molti anni ho cercato di contestare le mode intellettuali nella scienza e ancor più nella filosofia. Il pensatore alla moda è per lo più prigioniero del proprio conformismo, mentre io considero la libertà – la libertà politica così come il pensiero autonomo e aperto – uno dei principali valori che la vita può offrirci, se non il principale.” Libertà fatta di pensiero autonomo e aperto, libertà che diventa valore, si sostanzia nella capacità di costruire idee, a cui si associano precise responsabilità e, dunque, metodi di verifica e analisi del contesto. Quando Popper parlava di pensiero aperto, una buona parte delle tecnologie informatiche che usiamo oggi non esisteva, ma quel pensiero sapeva interconnettere ieri più di oggi perché costruito sulla piattaforma comune della razionalità; era il prodotto di un’intima libertà, da cui emerge la capacità di immaginare il nuovo, superando se necessario i più consolidati paradigmi. Fatichiamo a rendercene conto, ma sempre più spesso viviamo in una gabbia di dogmi che alimentiamo noi stessi, una gabbia di cui si sono perse le chiavi, le chiavi della ragione, prigionieri, come direbbe Popper, del mito della cornice, che ci impedisce di costruire il nuovo. La lezione dell’epistemologo Popper è più attuale che mai. Popper descrive il “mito della cornice” come quell’approccio secondo cui gli argomenti razionali “devono sempre procedere all’interno di una cornice di assunzioni” in modo però che la cornice stessa resti al di fuori dell’argomentazione razionale. Ci ricorda che ogni asserzione è considerata relativa a una data cornice di assunzioni, come tale accettata acriticamente come fosse una sorta di dogma di fede, ancorché laica. Popper osserva che questa visione è così diffusa nel mondo occidentale da essere accettata addirittura inconsapevolmente; ne rappresenta però un vero e proprio cancro, la cui prima, devastante conseguenza è che tutte le discussioni o i confronti tra persone che utilizzano “cornici” diverse sono “vane e prive di senso, poiché ogni discussione razionale può operare soltanto all’interno di una data cornice di assunzioni”. Accettare il “mito della cornice”, osserva l’epistemologo, significa vedere tutti gli uomini intrappolati in una gabbia di credenze irrazionali, in quanto non soggette, per principio, ad alcuna critica discussione. (da Sir Karl R. Popper; “Il sé, la razionalità e la libertà” in “Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza” edito da Il Mulino per la collana Intersezioni).
Popper ci insegna che in ogni istante della nostra crescita mentale ci troviamo ingabbiati da una cornice (e un linguaggio) che limita senza dubbio il nostro pensiero; tuttavia, in ogni momento, siamo anche “liberi di uscire dalla prigione criticando il nostro contesto (le assunzioni della nostra cornice) e adottandone uno più ampio e più vero e un linguaggio più ricco e meno carico di pregiudizi”. Si tratta di un’evasione difficile, a volte drammatica ma comunque possibile. Ciò che la può stimolare, scrive Popper, è proprio la collisione con un altro contesto, ovvero il confronto, radice della civiltà occidentale. Il confronto, che per il cittadino si dovrebbe tradurre in dialogo, così come il voto, che è l’espressione della propria volontà, sono i capisaldi della democrazia; lo ricorda assai spesso nei suoi saggi anche Amartya Sen.
La democrazia, ricorda ancora Popper, offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma ragionevole; ne permette la realizzazione senza violenza. Tuttavia, se si perde di vista il presupposto della salvaguardia della democrazia, le tendenze antidemocratiche sempre presenti possono avere il sopravvento, sfociando in una tirannia. Il consenso della maggioranza o addirittura della totalità non basta a costruire una democrazia; serve piuttosto “il consenso sul dissenso, il consenso cioè sugli uguali diritti di chi la pensa diversamente”. La domanda corretta che il cittadino dovrebbe porsi, dunque, non è chi deve governare, ma come controllare chi comanda. In una democrazia, in una società aperta devono poter convivere idee contrastanti. Perché ciò accada sono necessari metodi e strumenti di controllo; perché un confronto sia possibile è indispensabile accettare il principio della fallibilità, dell’errore. Per crescere nella democrazia abbiamo bisogno di mettere in competizione le diverse cornici di assunzioni; dobbiamo cioè studiarle, capirle e criticarle per poi verificarle sul campo e scegliere, consapevoli che si tratterà comunque di una scelta soggetta nel tempo a mutamenti e trasformazioni.
Ict, strumento di democrazia?
Le nuove tecnologie dell’informazione sono strumenti adatti per mettere in concorrenza le diverse cornici? E’ possibile; ma sono e restano strumenti e come tutti gli strumenti l’efficacia è funzione della cultura che li ha prodotti e della cultura degli utenti. Una cosa però è certa: nel 2050 oltre un quinto della popolazione mondiale supererà i 60 anni; è la generazione dei “baby boomers”, che ha familiarizzato con Internet e le nuove tecnologie (Ict) in età adulta e che certo non smetterà di servirsene. Accanto a questa generazione ci sono i Nativi Digitali, i giovani al di sotto dei 25 anni, per i quali la tecnologia è presente sin dai primi anni di vita e, probabilmente, ne influenza la crescita, la generazione che nei social network costruisce le proprie relazioni.
Chi ha esperienza diretta dei social network sa molto bene quanto efficace possa essere il meccanismo di inviti e coinvolgimento nelle reti personali e nei gruppi di lavoro; ha ben chiaro, però, quanto dispersiva possa essere la partecipazione; le ricerche statunitensi dimostrano che un individuo non ha tempo e risorse sufficienti per partecipare proficuamente a più di tre Social Network. Esiste dunque un limite, dettato dalla disponibilità di tempo; un limite che, ricorda la sociologia, si applica anche alla crescita delle comunità, virtuali o reali che siano. E’ il cosiddetto numero di Dunbar, che stabilisce in 160 il numero massimo di individui presenti attivamente in una comunità; le comunità sono auto limitanti e quelle più estese (la maggioranza) sono di fatto cluster di piccoli gruppi che interagiscono tra loro.
Ma ciò che accade in rete è davvero così diverso da ciò che accade offline? Se la cornice è la stessa, lo strumento diverso è sufficiente a generare il cambiamento, a costruire quel confronto su cui si poggia la democrazia? Il web non è la democrazia; è solo uno strumento, più agile, più veloce, in alcuni casi più economico per raggiungere gli altri; almeno fino a oggi, sembra non superare e non sostituire in alcun modo la dinamica complessa delle relazioni personali, su cui si confronta la politica del fare. La democrazia, in particolare quella diretta, che dal web può trarre giovamento, è un raffinato meccanismo di costruzione delle decisioni, che richiede elevata consapevolezza, competenze specifiche e soprattutto spiccato senso di responsabilità. Il rischio è di confondere lo strumento (la rete, il social network, il web) con il contenuto (il programma, le idee, i valori e le azioni); il vantaggio è quello di disporre di uno strumento resiliente, capace di entrare nella complessità (crescente) della nostra realtà.
Entrare nella complessità
Come ricorda spesso Edgar Morin nei suoi scritti la consapevolezza della complessità genera nuova complessità, facendo sì che la conoscenza cresca per progressive approssimazioni, attraverso un circolo virtuoso di errori e correzioni. Tuttavia, per vedere ciò che ancora non c’è, è necessario avere strumenti che permettano analisi predittive e proattive. Per vedere oltre l’evidenza dei nostri sensi, la ragione non basta; ci vogliono intuizione, empatia, audacia, il tutto supportato da strumenti di verifica. La crescente disponibilità di software collaborativi è un primo passo in questa direzione e potrebbe rappresentare un’interessante sfida per superare il “mito della cornice”. Attraverso la collaborazione (resa razionale con i software) è possibile trasformare l’incertezza in elementi progettuali. Ciò che al singolo appare come un ostacolo insormontabile, al gruppo appare come una difficoltà da affrontare grazie alla condivisione di idee. Come ha osservato Morin in “Io, Edgar Morin” (di E.Morin, Cristina Pasqualini, Franco Angeli Editore) per la complessità non esiste il problema della relazione tra soggetto e oggetto; ciò che conta è invece la circolarità permanente tra soggetto e oggetto, tra soggetto e soggetto. Riportando al centro del processo conoscitivo il soggetto, si supera il concetto di oggettività costruita eliminando l’autoconoscenza del soggetto; con l’osservatore all’interno dei processi se ne valorizza il contributo e lo si trasforma in catalizzatore di cambiamento. Il soggetto è parte integrante non solo della raccolta ma addirittura della costruzione del dato. L’Ict rende possibile quella causalità circolare che è uno dei tratti distintivi del cambiamento complesso; partecipa allo sviluppo della conoscenza organizzatrice e creatrice, grazie alla diffusione capillare delle informazioni.
Cosa accadrebbe, invece, se l’Ict pur realizzando la causalità circolare non riuscisse di fatto a costruire la collaborazione attesa?
L’orizzonte del futuro prossimo resta un orizzonte liquido costellato di tanti nuovi inizi e di nuove fasi di apprendimento. Come scrisse Zygmunt Bauman nel suo “Homo consumens” (Erickson, 2007) la società della modernità liquida è sempre più simile a uno sciame che tende a sostituire il gruppo. Ci ricorda il sociologo a pag. 48: “Gli sciami non hanno bisogno di imparare l’arte della sopravvivenza. Essi si radunano e si disperdono a seconda dell’occasione, spinti da cause effimere e attratti da obiettivi mutevoli. Il potere di seduzione di obiettivi mutevoli è generalmente sufficiente a coordinare i loro movimenti rendendo superfluo ogni ordine dall’alto. In verità, gli sciami non hanno un alto, ma solo una direzione di fuga che in se stessa determina la posizione dei leader e dei seguaci per la durata di quella traiettoria o almeno per una sua parte. Gli sciami non sono squadre: non conoscono la divisione del lavoro. A differenza dei gruppi veri e propri non sono più dell’unità delle loro parti – sono particelle autorepellenti. (…)
Nello sciame non c’è né scambio, né cooperazione, né complementarietà, solo prossimità fisica e una generale direzione di movimento.” Se la lettura di Bauman si concretizzasse, diventando il tratto caratteristico della società, molte delle tesi oggi più diffuse verrebbero rovesciate, a partire dal significato stesso di confronto e partecipazione.