Da alcune settimane, anche precedenti il periodo di Avvento e il Natale, i brani evangelici domenicali ci hanno ammonito e ammoniscono circa il fatto che la venuta di Gesù e il Suo annuncio sono eventi epocali, che cambiano il corso della Storia. E, per i Cristiani, così è avvenuto e così avverrà anche in futuro. Eventi epocali che, secondo quanto riportato nei detti brani, per la stessa limitatezza dell’uomo, provocano e provocheranno guerre, distruzioni, lutti e, soprattutto, crolli di templi, incluse tutte le “divinità” ivi allocate. Quelle “divinità” il cui fondamento era ed è propiziatorio, quasi multiformi e deformanti specchi dei desideri inappagati di ciascuno, idoli ingannevoli e vani. di Francesco Nosari
Con l’invio di Gesù, il Padre che sta nei cieli e che ama l’uomo, col quale direttamente si rapporta, si sostituisce a tutti quegli idoli, cagionando uno sconvolgimento totale in quegli animi “specchiati”, che, nella sostanza, il proprio dio se lo volevano (e vogliono) costruire su misura. Da ciò la grande “offerta” di divinità oppure di riti, che consentivano (e consentono) all’uomo di non rinunciare a tale prerogativa, peraltro non osando questi affermare apertamente di essere lui, essere mortale, “nei fatti” il dio di se stesso.
Gesù, diversamente dai Suoi discepoli, è perfettamente conscio della cesura cagionata dalla Sua venuta fra gli uomini e dal Suo annuncio e, di seguito, delle relative conseguenze. Egli, discendente da stirpe regale, nato per la salvezza del Suo popolo e di tutta l’umanità, cresciuto in un’area territoriale segnata dai tanti Baal locali e soggiogata a un impero attraversato da irreversibile crisi religiosa, profondo conoscitore della Torah, avverte nell’intimo l’inconciliabiltà fra la Sua missione che va oltre la Legge e le usanze religiose vigenti, comprese quelle del Suo popolo, e sente il peso della tremenda ventata rivoluzionaria che reca seco.
Anche Giovanni, il Battista, che pure è colui che ha battezzato Gesù e l’ha riconosciuto, sente l’obbligo di chiederGli conferma se Egli sia il Messia tanto atteso: in certo senso, teme la terribile portata dell’evento, che può solo immaginare. La risposta di Gesù, a tal punto, non può che essere calata sulla straordinarietà del cammino da Lui appena intrapreso, irrefrenabile, scandaloso per i più. Infatti, – dice – saranno beati coloro che, intuendo o capendo, tale non lo riterranno, e, aggiungo io mettendomi nei panni di Giovanni che riceve quel tipo di risposta, a maggior ragione coloro che non trarranno scandalo dagli eventi ancora più straordinari, gloriosi e terribili che, inevitabilmente a tal punto, si succederanno. Il popolo, però, non vede e non capisce. Resta silente. Pensa solo a beneficiare di volta in volta dei poteri del Maestro/mago, e neppure gli passa per la testa che la straordinarietà non può mai essere a senso unico….
Ebbene, nel tempo successivo a quel primo annuncio, ai giorni nostri, quanti si sono posti almeno la domanda del Battista? Quanti sono andati oltre la ricerca della benevolenza di un Maestro/mago che, dopo la Risurrezione, è stato addirittura “promosso” al rango di Dio, in unità col Padre e lo Spirito?
Troppo pochi, evidentemente. Infatti, nonostante l’avvento del Padre che ama, annunciato da Gesù, continuano le guerre e le distruzioni di templi. Ex adverso, è altrettanto evidente che la ventata rivoluzionaria portata da Gesù è ben lungi dall’esaurirsi, ed Egli, Dio vivente, non cesserà di alimentarla finché anche l’ultima delle Sue pecore non sarà stata ricondotta in salvo nell’ovile.
Al fondamento delle continue tragedie umane, dunque, per il Cristiano, sta il mancato riconoscimento del Padre e dell’opera del Figlio, Dio fatto uomo. Anzi, oggi dovremmo riflettere sul fatto che, in realtà – non ci può sfuggire – gli dèi si sono moltiplicati a dismisura, quasi corrispondendo a ciascun individuo presente sul globo terrestre. E sul fatto che, a loro volta, questi miserabili piccoli dèi umani debbono costruire con le altre a loro similari “divinità” (cioè con quelli che la pensano in qualche modo come loro) degli idoli in cui comunque collettivamente riconoscersi. Siamo tornati al politeismo.
Questa parola – riferisce Sandro Magister in un magistrale (nomen omen) articolo pubblicato sul numero 50/2010 de L’Espresso – è balenata come un lampo, lo scorso ottobre, in un discorso di Papa Benedetto XVI al Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, cioè proprio la terra natale dell’unico Dio fatto uomo, Gesù, e dei più potenti monoteismi della storia, quello ebraico e quello musulmano.
“Credo in unum Deum” è il poderoso accordo da cui ha principio la dottrina cristiana. Ma anche per Padre Joseph Ratzinger, papa teologo, il politeismo è tutt’altro che morto. È la sfida perenne che anche oggi si erge contro il Cristianesimo e contro le fedi nell’unico Dio.
“Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi”, proseguì il papa nel sinodo. I capitali anonimi, la violenza terroristica, la droga, la tirannia dell’opinione pubblica sono le moderne divinità, gli idoli collettivi che schiavizzano un uomo già disposto a schiavizzarsi da sè. Perché di schiavizzazione è ogni percorso egotistico, individuale o di gruppo che sia. Devono cadere quegli idoli. Devono essere fatti cadere. La caduta degli dèi, i tanti, troppi dèi, la sepoltura degl’idoli sotto le rovine dei loro templi è l’imperativo di ieri, di oggi, di sempre dei credenti nell’unico Dio vero.
Ma il politeismo di oggi – prosegue l’Autore – non è solo fatto di potenze oscure. I suoi molti dèi e idoli hanno anche volto benevolo e capacità di seduzione, le loro oscurità sono ben nascoste.
È la “gaia scienza” vaticinata da Nietzsche più di un secolo fa, che offre a ogni singolo uomo, aspirante dio, “il più grande vantaggio”: quello di “erigere il suo proprio ideale e derivare da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti”.
È il trionfo del libero arbitrio individuale, senza più il giogo di una tavola della legge, di una legge sola per tutti perché scritta da un unico intrattabile Dio. Ognuno di noi dio di se stesso, dunque, ma, ahimé! pur sempre bisognoso delle fallaci divinità collettive, gli idoli, di cui sopra. Quindi, un dio-non-dio, fin dall’inizio, in se stesso, ectoplasma di disperata, disperante e vuota contraddizione .
Spiega Sandro Magister: quell’ammirazione per il “Genio del cristianesimo” che aveva infiammato Chateaubriand e i romantici cede oggi il passo a una riscoperta entusiasta del “Genio del paganesimo”, titolo di un’operetta dell’antropologo francese Marc Augé.
In Italia un altro antropologo, Francesco Remotti, si scaglia contro “L’ossessione identitaria”, titolo del suo ultimo libro, e rimprovera il papa, in un altro suo libro in forma di lettera, per il suo ostinato procedere “contro natura”, contro una modernità (che sarebbe conforme a natura) che fa invece gustare le meraviglie del politeismo, così liquido, pluralista, tollerante, liberatorio, non direzionale, non contenitivo.
Certo, l’attuale reviviscenza del politeismo non riporta in voga i culti a Giove e a Giunone, a Venere e a Marte. Ma la filosofia dei pagani colti dell’impero di Roma riaffiora intatta nei ragionamenti di tanti moderni fautori del “pensiero debole”. E non solo di questi. Chi oggi rilegge, sedici secoli dopo, la disputa tra il monoteista Ambrogio, il santo patrono di Milano, da poco celebrato nella liturgia, e il politeista Simmaco, senatore della Roma pagana, è fortemente tentato di dare ragione al secondo, quando dice: “Che cosa importa per quale via ciascuno ricerchi, secondo il proprio giudizio, la verità? Non per una sola strada si può giungere a un così grande mistero”. Il fatto è che, per definizione, il mistero non si possa attingere, ma solo avvicinare, e le strade verso di esso possano essere bensì differenti, ma di direzione univoca. Se no, sono altra cosa, vanno da altra parte, sono strade di-verse.
La magnanima parità tra tutte le religioni e gli dèi che quelle parole sembrano ispirare incanta anche molti cristiani, specialmente quelli che, bona fide, son soltanto convinti di esserlo, magari pur tepidamente. Lo “spirito di Assisi” nato dall’adunanza multireligiosa che là si tenne nel 1986 ha così contagiato il diffuso sentire che nel 2000 la Chiesa di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger si sentì in dovere di ricordare ai cattolici che di Salvatore dell’umanità ce n’è uno solo, ed è il Dio fatto uomo in Gesù: una verità su cui l’intero Nuovo Testamento sta o cade, una verità che in due millenni mai la Chiesa aveva sentito la necessità di ribadire con un pronunciamento “ad hoc”. Eppure, quella dichiarazione del 2000, la “Dominus Iesus”, fu accolta da un fuoco di fila di proteste, dentro la Chiesa e fuori, per la sua esclusione di una pluralità di vie di salvezza, ritenute tutte in sé sufficienti e piene di grazia e verità.
Non ultime, le neppur sommesse proteste della diocesi bergamasca, che hanno trovato eco negli stessi testi cosiddetti sinodali, in verità costituzioni vescovili… Il tutto nel filone di quell’interpretazione tranchante, cosiddetta “progressista”, del Concilio Vaticano II che ha avuto in don Giuseppe Dossetti uno dei massimi divulgatori, oggi peraltro apertamente e duramente criticato (vedi l’ultima edizione della “Memorie” di S.Em. il cardinale-teologo Giacomo Biffi).
Che in questi sentimenti si annidi la nostalgia per una pluralità di dèi non è cosa certa, è vero, ma solo possibile. L’odierno politeismo, infatti, a livello di massa, è parecchio sfumato.
L’idea corrente è che le varie religioni, all’interno delle quali viene annoverato acriticamente il Cristianesimo, siano a loro modo tutte espressione di un “divino”. E tuttavia questa divinità somma, come già spiegava ad Ambrogio il pagano Simmaco, – ci ricorda Sandro Magister – è inconoscibile e lontana, troppo lontana per appassionare gli uomini e prendersi cura di loro.
Da uno scrittore latino del III secolo, Minucio Felice, ci è giunto un altro dialogo, molto raffinato, nel quale il pagano Cecilio, passeggiando sul litorale di Ostia, dopo aver reso omaggio a una statua di Serapide, spiega che “nelle cose umane tutto è dubbioso, incerto, indeciso” ma proprio per questo è bene seguire la religione degli antichi e adorare “quegli dèi che i nostri padri ci hanno insegnato a temere, piuttosto che a conoscere troppo da vicino”.
In un’omelia in piazza San Pietro dello scorso 11 giugno, il nostro Papa Benedetto XVI ha detto che “stranamente questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo”. E in effetti un campione dell’età dei lumi come il miscredente Voltaire ordinava ai suoi familiari e alla servitù di ossequiare il Cristianesimo e i suoi precetti, per motivi di buona creanza civica. Del resto, che cosa c’è da conoscere in un idolo? Soltanto la ri-conoscenza della propria limitatezza, o della propria supponente deità. O, infine, della propria stupidità.
Dio c’è, forse. E forse è lui che ha creato il mondo. Ma poi se ne è talmente disinteressato da sparire dall’orizzonte vitale. La sua bontà è tutta nel non produrre disturbo alcuno. Liberatici dal “padrone”, troppo occupato altrove, i veri dèi diventiamo e siamo noi, ma non possiamo dirlo per non cadere nel ridicolo o rischiar di urtare la suscettibilità del “padrone”, che potrebbe tornare a far valere i suoi diritti, mettendoci in riga. Però, dobbiamo creare idoli per non essere dèi soli. Siamo dèi comunque azzoppati.
E così, sotto il cielo di quella divinità vaga e remota, la terra si è popolata di nuovi dèi. In divisa laica e pragmatica.
Ricorda l’Autore che già nell’Ottocento, nei suoi “Saggi sulla religione”, l’economista e filosofo John Stuart Mill scrisse che il politeismo era di gran lunga più funzionale del monotesimo nel descrivere quella pluralità di etiche che caratterizzava lo scenario di vita della prima società industriale; etiche di convenienza, anche di oppressione se del caso, ma di oppressione “etica”, ovviamente(secondo lui). E Max Weber, nel primo Novecento, coniò la formula di “Polytheismus der Werte”, cioè politeismo dei valori, proprio per indicare il pantheon della moderna società.
In un mondo ormai disincantato, senza più un unico Dio che proclami comandamenti validi per tutti, ciascuna delle sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza alla stessa religione – è ulteriormente retta da un suo dio multiforme, multioculare, quasi indùico, con i suoi oracoli. Oracoli spesso tra loro in conflitto, con l’uomo drammaticamente solo nell’ora della decisione. Il dio azzoppato, appunto, che abbraccia inutilmente i suoi idoli, di essi non sapendo seguire quale indicazione di quale dito di quale mano.
Weber, l’abbiamo letto nel testo recentemente riedito nella collana del Corriere della Sera attualmente in edicola, con l’impeccabile distacco dello studioso, non disse se questo moderno politeismo fosse un bene o un male. Ma altri pensatori venuti dopo di lui non nascondono più a cosa vanno le loro simpatie.
Rammenta Sandro magister che nel secondo Novecento, alla “teologia politica del monoteismo” propugnata da Erik Peterson (un autore tra i più letti e ammirati da Padre Joseph Ratzinger fin da giovane professore), il filosofo tedesco Odo Marquard contrappone una “teologia politica del politeismo”, e nel titolo del suo saggio loda tale politeismo con la qualifica di “illuminato”. A suo giudizio, l’uomo ha sempre bisogno di miti, e l’importante è che tali miti siano molti e aperti a infinite variazioni, come nella mitologia antica, all’opposto dell’ebraismo e del cristianesimo, che poggiano su fatti storici unici e incontrovertibili.
In Spagna, la filosofa Maria Zambrano, filosofa del diritto, ha puntato il dito contro l’ascetismo di matrice medievale della spiritualità cristiana, distruttivo dei sentimenti. È la poesia, a suo giudizio, che può liberare l’uomo dal “monolitismo” e restituirlo al suo gioioso politeismo nativo.
In Italia è lo stimatissimo prof. Salvatore Natoli il filosofo che difende una “etica del finito”, un insieme cioè di riferimenti “politeistici”, multipli, che offrano all’uomo dei punti d’appoggio, mai definitivi ma pur sempre capaci di salvarlo provvisoriamente dall’anarchia degli istinti. E, per la verità, in grado anche di fargli almeno baluginare un possibile indirizzo veritativo.
Sicuramente, però, ad avviso di Sandro Magister, l’opera che ha più instillato nella cultura italiana contemporanea una rivalutazione del politeismo è più letteraria che filosofica: sono “Le nozze di Cadmo e Armonia” di Roberto Calasso, del 1988, con la loro evocazione gloriosa della mitologia classica.
A dispetto del “disincanto del mondo”, descritto da Weber, la società moderna non appare, infatti, immune dall’opposta seduzione di un mondo nuovamente incantato, in cui alla realtà e alla durezza della disciplina della ricerca si sostituisce uno stato soporoso, fra il fantastico e l’onirico.
Alain de Benoist, pensatore della “nouvelle droite” francese, è il più acceso banditore di questo ritorno alla sacralità neopagana.
Per la corrente culturale da lui rappresentata il grande nemico è proprio il giudeocristianesimo con la sua idea “desacralizzante” della creazione. Se non c’è altro Dio all’infuori del Dio unico, infatti, le creature non avrebbero più nulla di divino e perfino gli astri, come dice la prima pagina della Genesi, null’altro sarebbero se non semplici “luminari” appesi dal Creatore alla volta celeste per segnare il giorno e la notte. Il mondo sarebbe definitivamente consegnato alla sua profanità. O panteismo o morte!, si potrebbe dire, ma il Nuovo Destro dimentica, non per caso, che anche il sacro è umano.
Osserva Leonardo Lugaresi, docente a Bologna e Parigi e specialista di cristianesimo antico: “Nel rimprovero mosso oggi al cristianesimo di essere responsabile della desacralizzazione del mondo, quella che torna in gioco, sotto nuove forme, non è altro che la vecchia accusa di ateismo mossa ai cristiani dei primi secoli”.
E aggiunge: “Come allora, anche per una certa mentalità neopagana di oggi il cristianesimo è nocivo perché ha tolto alla terra il suo incanto, i suoi dèi, e ha privato l’uomo di un rapporto religioso con la natura (rapporto che è strutturalmente soggettivo – n.d.r.). Di conseguenza, il nuovo paganesimo vuole guarire il mondo dalla “rottura monoteistica” (che è di tendenza oggettiva e oggettivante – n.d.r.), cioè restituirgli quella sacralità e divinità che il cristianesimo gli ha tolto”. Appunto!
La formula “rottura monoteistica” rimanda agli studi di un grande egittologo, il tedesco Jan Assmann, che ha indagato a fondo sulla novità rivoluzionaria introdotta dall’unico Dio della religione di Mosè rispetto al politeismo dell’Egitto dell’epoca. Non sorprende, quindi, che l’editrice il Mulino, nel pubblicare quest’anno dieci saggi affidati ad altrettanti autori sui dieci comandamenti del decalogo mosaico, abbia assegnato proprio ad Assmann il commento del “Non avrai altro Dio”.
Assmann non è un apologeta del politeismo. Ma vede nel monoteismo mosaico, fin dal suo nascere, un contrapporsi esclusivo e intollerante alle altre religioni. Tutti i monoteismi storicamente venuti alla luce, dall’ebraismo, al cristianesimo, all’islam, portano in sé, a suo giudizio, il veleno della violenza. E allora egli chiede ai monoteismi di superare i loro assoluti e “raggiungere il punto trascendentale grazie al quale diviene possibile la vera tolleranza”, di elevarsi cioè alla forma superiore di “sapienza religiosa” o di “religione profonda” incarnata da saggi e sapienti come Albert Schweitzer, il Mahatma Gandhi e Rabindranath Tagore; insomma, di elevarsi “all’ideale settecentesco di tolleranza espresso dal massone Lessing nella parabola dei tre anelli, nel racconto di Nathan il saggio”.
E cos’è questa se non la religione senza norme né dogmi dell’Illuminismo, con il suo Dio remoto? E a che cosa può aprire lo spazio, questa religione vaga, se non a un nuovo politeismo dell’arbitrio? Le domande poste da Sandro Magister ci interpellano tutti.
Lo scorso 13 settembre, nel ricevere il nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, dr Walter Jürgen Schmid, Papa Benedetto XVI ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha così proseguito: “Molti uomini mostrano oggi un’inclinazione verso concezioni religiose più permissive anche per se stessi. Al posto del Dio personale del cristianesimo, che si rivela nella Bibbia, subentra un essere supremo, misterioso e indeterminato, che ha solo una vaga relazione con la vita personale dell’essere umano. Se però uno abbandona la fede verso un Dio personale, sorge l’alternativa di un “dio” che non conosce non sente e non parla. E, più che mai, non ha un volere. Se Dio non ha una propria volontà, il bene e il male alla fine non sono più distinguibili. L’uomo perde così la sua forza morale e spirituale, necessaria per uno sviluppo complessivo della persona. L’agire sociale viene dominato sempre di più dall’interesse privato o dal calcolo del potere”. Ma, siccome coll’interesse privato e i calcoli di potere non si dialoga e senza un dio con cui in qualche modo colloquiare l’uomo non può stare, lui stesso, l’uomo, quale dio creatore, si inventa idoli coi quali esprimere la sua potenza “divina” e nello stesso tempo ingannarla miserevolmente.
Dalle parole del Papa, sopra riportate, si capisce ancor più il motivo per cui oggi, per Sua Santità, papa Benedetto, “la priorità suprema e fondamentale” sia di riaprire a una umanità disorientata l’accesso a Dio, e “non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”, il cui amore non può nemmeno essere costretto nell’odierna concezione di “religione”.
Un distacco incolmabile con l’altro dio, l’essere supremo, misterioso e indeterminato di cui oggi si discetta, il quale, anch’esso, nient’altro è se non un idolo collettivo, intellettualmente adeguato alle esigenze dei tempi e alle loro convenienze, utile a sopire momentaneamente le angosce intellettuali di alcuni raggruppamenti umani…
Però, proprio a partire da tali angosce, scavando appena un poco, se ne scoprono altre, ben più profonde e pericolose: che ne è di coloro che non hanno la “faccia di bronzo” di autoproclamarsi dèi e di crearsi (o aderire a) idolatrie, le quali comunque esigono il rispetto di alcune fondamentali regole? Per costoro resta valida l’ipotesi “politeista” surriportata oppure dobbiamo impostare in altro modo e su altre basi la nostra teoresi? Siamo certi che l’indifferentismo e il vuoto di aspirazioni e speranze, oggi imperanti, faccia pur sempre capo a qualche autoreferenziale “divinità”, sia pure inespressa, con conseguente creazione di idoli? A mio avviso il riferimento a divinità “altra” rimane e va mantenuto, ma si entra in un capitolo che andrebbe affrontato con ben altri mezzi, capacità, conoscenze e consapevolezze: il capitolo del Male fatto persona, che porta allo svuotamento dell’uomo, al farne un guscio vuoto all’interno, privato, perciò, di ogni relazione d’amore col suo Dio, al quale, a propria volta, riuscirebbe difficile fargli sentire tutto il calore del Suo infinito amore. Su questo sfondo, a mio avviso, vanno lette le decisioni di Benedetto XVI di istituire un nuovo dicastero in curia vaticana “per la nuova evangelizzazione” e di dedicare a questo stesso tema il sinodo dei vescovi del 2012, così come l’iniziativa di dialogo con i non credenti che ha chiamato “cortile dei gentili” e ha affidato al suo ministro della cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, per il quale nutro grande considerazione e amicizia.