La comunità cristiana, a partire da quella parrocchiale, dovrebbe essere imitazione della prima comunità cristiana di Gerusalemme. Pretese esigenze organizzative, non sempre efficaci, talora volte a fini ultronei, sono in non pochi casi di impedimento al raggiungimento dell’obiettivo e tendono a distaccare i presbiteri dalla comunità, riducendoli in sostanziale solitudine, che contrasta con la loro stessa vocazione. (di Francesco Nosari)
Nel corso dell’udienza di mercoledì 19 gennaio 2011, Sua Santità Benedetto XVI, riproponendo il tema dell’unità dei Cristiani e della preghiera che deve accompagnare tale aspirazione comune, ha ricordato come la Chiesa abbracci sin dagli inizi, assimilandola in un unico corpo, gente di diversa provenienza, come avvenuto nella prima comunità cristiana di Gerusalemme, originario luogo di unità e di amore.
Ogni comunità parrocchiale, a imitazione di quella, dovrebbe essere caratterizzata dall’unione e comunione fraterna, dall’ascolto dell’insegnamento apostolico, dalla partecipazione all’Eucaristia e dall’assiduità nella preghiera, individuale e collettiva.
Quindi e innanzitutto, l’ascolto dell’insegnamento apostolico, cioè l’ascolto della testimonianza che gli Apostoli rendono alla missione, alla vita, alla morte e alla risurrezione del Signore, in altre parole, l’ascolto del Vangelo, è il primo elemento di caratterizzazione di ogni comunità cristiana, a partire, per l’appunto, da quella parrocchiale. Questo è il suo elemento fondante, la norma della sua fede, il presupposto di tutto quel che può seguire: ogni sforzo per la costruzione di una comunità unita, convinta, coerente, ferma e salda passa attraverso l’approfondimento della fedeltà al depositum fidei trasmessoci dagli Apostoli, che permette la comunione con Dio e al sacrificio di Cristo, la partecipazione orante alla preghiera di Gesù.
I primi cristiani ricevevano il Vangelo direttamente dalla bocca di Coloro che avevano vissuto de visu et auditu l’insegnamento del Signore ed erano uniti nell’ascolto della sua traditio e, poi, nella proclamazione di quanto appreso. Oggi, il soddisfacimento della sete di evangelizzazione, l’accensione della luce di Cristo nel cuore di tutti, specie tra le famiglie, spesso divise, fra i giovani, negli ambienti di lavoro come in quelli intellettuali, insomma, la rinnovazione dall’interno del dinamismo apostolico delle parrocchie, adattato alle realtà delle Chiese locali, grava principalmente, anche per strutturazione gerarchica, sulle spalle dei presbiteri, cui è richiesto sempre più uno sforzo educativo attento e generoso, culturalmente approfondito e intellettualmente adeguato, pur a fronte del loro numerico diminuire.
Come già ho avuto modo di argomentare in un precedente articolo centrato sul rimontante politeismo (vedi in questo stesso sito di Bergamo info, sotto la voce cultura), viviamo oggi una condizione segnata da una radicale pluralità, superba e fragilissima insieme, da una progressiva emarginazione della religione dalla sfera pubblica, da un relativismo che tocca i valori fondamentali, esaltante l’aspetto violento della forza materiale – di qualunque tipo essa sia -, e la miope furbizia dell’inganno.
L’argomento che qui mi propongo di cominciare in piccola parte ad affrontare, a sua volta argomento assai parziale rispetto al tema generale introdotto, riguarda le concrete possibilità oggettive e per qualche aspetto soggettive che sono date ai nostri presbiteri di rendere manifesta la profezia di salvezza di tutte le genti insita nel mistero della morte e risurrezione di Gesù, di annunciarla con gioia proprio a quella eterogenea “gente di diversa provenienza” (nel senso principalmente di diverso sentire e differenti convinzioni, anche fra i cristiani) che essi sono chiamati a incontrare.
Le domande che direttamente o indirettamente detta “gente” propone loro sono durissime e terribili, per l’appunto radicali e disperate insieme: il cristianesimo in quanto tale è superato? Si può ancora oggi ragionevolmente essere credenti? Nel momento storico in cui è diventata usuale, necessaria per taluni, al fine di “addolcire” l’impatto con la realtà, un’interiore microscissione, un’ambiguità di fondo, per cui una persona può proclamare un ideale e poi comportarsi nel modo esattamente opposto, che senso ha rifarsi ancora ai Comandamenti, in particolare all’integrazione dispositiva e universale fattane da Gesù? In un mondo dominato da una tecnica che ha eliminato qualunque vincolo dell’agire umano, proiettando la libertà individuale in una dimensione sostanzialmente amorale, possono esistere principi, valori e senso etici e morali, non arbitrari, da perseguire? Il futuro, nella sua prevedibilmente crescente complessità, spegnerà l’ansia di verità, oppure la dimensione spirituale, oggi ridotta al privato, tornerà a guadagnare spazio nelle nostre esistenze, individuali e di gruppo sociale? L’uomo contemporaneo, autoproclamatosi dio di se stesso e contraddittoriamente necessitante di idoli da adorare, è esperimento di sè, proteso in un idolatrico processo tecnocratico che, ancora una volta contraddittoriamente rispetto alle premesse, lo eterodirige, oppure, insieme ai suoi simili, può ancora riconoscersi, e come, in una modalità di vita fatta di relazioni buone e che persegua l’equilibrata crescita della persona, in reciproco e fraterno aiuto con gli altri consorziati, e, augurabilmente, con l’assistenza della Provvidenza divina?
Queste sono le domande che molti cristiani si pongono e “ribaltano” sulla pelle, nel cuore e nell’intelletto dei loro sacerdoti. A esse – viene spontaneo farvi riferimento – cerca già di rispondere esaustivamete il “Catechismo della Chiesa cattolica”, il testo dottrinario per eccellenza della stessa. Si potrebbe supporre che sarebbe sufficiente un’adeguata sua conoscenza e pratica da parte dei presbiteri perché essi siano in grado di trarne validi spunti, se non efficaci spiegazioni. Ma, oltre a segnalarsi una scarsa preparazione e partecipazione in materia da parte dei diretti interessati (ne tratteremo in altra sede), è altrettanto superfluo rilevare come detto libro, di alta e necessaria sintesi, non può che “volare” un poco al di sopra della concreta constatazione che non solo i continenti e le culture dei loro popoli, cui il Catechismo è indirizzato, sono differenti, ma anche che all’interno delle singole società esistono diversi “continenti”: l’operaio ha una mentalità diversa da quella del contadino, e un fisico diversa da quella di un filologo; un imprenditore diversa da quella di un giornalista, un giovane diversa da quella di un anziano. E all’interno di quegli stessi “continenti”, in ipotesi assunti come omogenei, a seconda dei luoghi e delle circostanze, le mentalità si differenziano e distinguono ulteriormente, fino a giungere a quel meraviglioso mistero e miracolo divino che è la singola creatura umana, figlia del Padre. Per questo motivo, nel linguaggio e nel pensiero applicativi, quelli della realtà quotidiana, ci si deve porre, contemporaneamente e spesso contestualmente, al di sopra e all’interno di tutte queste differenze, e per così dire cercare uno spazio comune tra i differenti universi mentali, cercare “traduzioni” nei differenti mondi. Si tratta di azioni e mediazioni, analitiche e sintetiche insieme, che richiedono grande intensità intellettuale e spirituale, e che di fatto gravano sui sacerdoti, calati nelle specifiche realtà che vivono e soffrono ogni giorno.
Sono essi oggettivamente preparati a farlo, dando ai fedeli (e a ogni persona che si interroghi) risposte che non siano quelle che chiunque può darsi da sé? Vengono loro forniti gli strumenti e gli indirizzi necessari per accostare, sostenere e introiettare la terribile fatica e pena di calarsi in quel terribile deserto dello spirito che è la società odierna, deserto che non perdona il benché minimo errore? Sono consapevoli del fatto che, in una situazione di deprivazione dell’alimento spirituale come quella che viviamo, basta un nulla per provocare disastri?
Vi è da considerare, inoltre e per aggiunta, che negli scorsi decenni le varie Chiese nazionali hanno profuso molte energie nella produzione di loro testi di catechesi, ma quasi sempre con criteri lontani, se non opposti, a quelli del Catechismo voluto negli anni scorsi da Papa Giovanni Paolo II e dall’allora Cardinale prof.dott. Joseph Ratzinger, il tutto con esiti quasi ovunque fallimentari, generatori di ulteriori confusioni, in quanto indirettamente promotori di autonome (e assai discutibili) interpretazioni delle Scritture. La conseguenza è che oggi la trasmissione della dottrina cristiana alle nuove generazioni, comprese quelle dei nuovi sacerdoti, è uno dei buchi neri più drammatici della pastorale della Chiesa, perchè a loro disposizione non c’è nemmeno una univoca e sufficientemente precisa mappa di orientamento ma una serie di mappe parziarie, dal contenuto spesso contrastante (lo rileva esattamente anche Sandro Magister, nel Suo sito web).
Chiediamoci, allora, se quelle imponenti e costosissime strutture educative della Chiesa denominate Seminari, spesso organizzate secondo criteri che appaiono ormai obsoleti, talora inficiati, secondo il mio punto di vista, dall’interpretazione dossettiana del Concilio Vaticano II, siano oggi adeguate allo scopo; se insegnino approfonditamente, per esempio, l’utilità e la necessità dello studio di quel testo dottrinario, propedeutico alla materiale applicazione del Vangelo, il Catechismo appunto, la sua esegesi, la sua pratica traduzione nei casi della vita di tutti i giorni. Per l’esperienza da me personalmente maturata e vissuta, e da tanti altri come me, risponderei in larga parte negativamente, perché la preparazione che i presbiteri ci mostrano pare essere prevalentemente, da un lato, di tipo liturgico e rituale, e, dall’altro, finalizzata a un agire fattuale, quasi da agenzia di servizi, pur di indirizzo cristiano, comprendente soprattutto un sussidiario, generoso e donativo apporto di aiuto e assistenza alle povertà e alle debolezze sociali e anche, in non trascurabile misura, le attente regole e modalità di gestione, amministrazione e autoconservazione delle strutture ecclesistiche.
Si tratta di un agire che nella maggior parte dei casi segue, e non precede, le esigenze della società, ampiamente così privandola del necessario afflato profetico.
Che, invece, il sacerdote, o aspirante tale, debba prima di ogni altra cosa conoscere e mostrare di conoscere con precisione e dettaglio quello che crede, conoscere la sua fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer, conoscerla come un musicista conosce il suo pezzo, pare essere una considerazione ovvia: se vale per i fedeli, a maggior ragione deve valere per i presbiteri, guide delle comunità cristiane. E’ necessario che il sacerdote debba essere profondamente radicato nella fede per poter resistere con forza e decisione alle sfide e alle tentazioni di questo tempo e, per di più, per essere in grado di annunciarla con irresistibile gioia!. Perché, altrimenti, il prete stesso diventa fattore di insorgenza di dubbi e perplessità.
E’ in parte quel che accade e che non trae origine, generalmente, da una fede “leggera” del presbitero, quanto piuttosto dalla sua frequente incapacità di affrontare con preparazione e saggezza quelle domande: anzi, direi che è proprio la diffusa e personale saldezza nella fede (che va riconosciuta, anzitutto e comunque, come esemplare testimonianza) che ha mantenuto finora fermo e coeso il clero cattolico, spronandolo ad andare avanti nonostante le disperanti difficoltà. Ciò non evita che il sacerdote avverta con sempre maggiore trepidazione e timore la sua inadeguatezza rispetto alle responsabilità attribuitegli, specie quando, sempre più spesso, essa gli si presenta implacabilmente alla vista del cuore e dell’intelletto, generando quel sottile rodimento interiore che, per tale via, può condurre alla sempre più facile crisi del prete, al suo sentirsi in balìa degli eventi anzichè sicuro nocchiero, pastore non all’altezza dell’annuncio richiestogli, talora persino slegato dalla comunità affidatagli e che dovrebbe guidare a Cristo.
L’insistito squillo del campanello d’allarme è stato certamente avvertito da tempo nelle stanze del potere decisionale ecclesiatico, e credo si stia alacremente provvedendo in tal senso, ponendosi rimedio a tante manchevolezze (a mio modesto avviso) dei decenni passati, pur se l’elefantiasi, talora la frammentazione, e la burocratizzazione del sistema lasciano dubbiosi. Resta intatto, tuttavia, il problema più consistente, quello di coloro che ormai presbiteri “formati” sono (o dovrebbero essere), ai quali in qualche modo bisognerà pur venire in soccorso, evitando che siano continuamente mandati come pecore da macello nel deserto, fra gli animali feroci, a patire fame e freddo (spirituali) senza riparo alcuno! Mica tutti son fatti di ferro… E’ pur vero che Gesù ha detto che i Suoi discepoli sarebbero stati mandati nel Suo nome come agnelli fra i lupi, ma è anche vero che ha sempre richiamato la figura del buon pastore, che conosce le sue pecore una a una, di ciascuna avendo la massima e personale cura.
In tale prospettiva, “l’organizzazione” della Chiesa nel suo insieme, fatte le dovute particolari eccezioni, non mi sembra ancora consona, all’esterno apparendo talora più come un potere che uno strumento di servizio nel senso indicato, maggiormente legata ad aspetti di gestione generale del sentire religioso piuttosto che a una promozione diretta dell’annuncio della parola di Dio, donataci da Gesù, tale da raggiungere i singoli fedeli , uno per uno, e tutta la “gente di diversa provenienza” cui la Parola è rivolta, illuminandoli e alimentandoli costantemente.
Tutti costoro, infatti, ma anche i sacerdoti, ovviamente, hanno personalmente bisogno dell’aiuto divino, oggi più che mai, e abbandonati a se stessi, a loro volta in balìa delle terribili domande di cui sopra, rischiano di vedere la loro fede o aspirazione alla fede inaridirsi come una goccia di rugiada al sole, di soccombere alle tentazioni del consumismo, di annegare nella pornografia di ogni genere e specie, di tradire i deboli e le vittime di soprusi e violenza, quindi, di tradire gli ideali comportamentali che hanno caratterizzato e caratterizzano la stessa civiltà cristiana.
Se “l’organizzazione” generale della Chiesa appare, dunque, un po’ lontana e astratta da tali specifiche esigenze, ciò che è anche per certi versi ben comprensibile, non molto dissimile è però la risposta da parte delle Chiese particolari, alle quali tali compiti sono demandati in via principale: anche tale risposta è assai poco incisiva, per quel che ne so, rivolta più alla “cura dell’organizzazione” diocesana che all’efficacia delle sue azioni, talora sembrando dimentica della precisa valenza del dato organizzativo, pur sempre fattore umano, per quanto pregevole e storicamente rilevante esso sia, da considerarsi sempre e comunque come mezzo strumentale per l’annuncio della Parola di Dio, strumento che al perseguimento di quel solo sublime scopo deve la sua esistenza e solo per esso dovrebbe funzionare. Se non va o non basta più, se ne deve modificare l’impostazione, anche alla radice.
In particolare, qui, in questo luogo di comunicazione, informazione e scambio di opinioni, a meri fini esemplificativi, faccio riferimento al caso che meglio conosco, quello della Chiesa che è in Bergamo, reduce da un recente (poco più di tre anni fa) sinodo diocesano avente ad oggetto proprio la parrocchia e i suoi problemi.
Nell’osservare che, diversamente dalle strutture socio-politiche, è soltanto la Chiesa che riunisce a consesso il proprio popolo per liberamente discutere e confrontarsi su argomenti esiziali (ed è titolo di merito non da poco), e nell’osservare, invece, che i documenti sinodali (in realtà costituzioni pensate e redatte in proprio dall’Ordinario, sentite le discussioni sinodali) sono stati nel triennio successivo oggetto di scarsa attenzione e discussione, anche soltanto, magari polemicamente, per rilevarne le manchevolezze e problematicità – va bene anche quello-, colpisce innanzitutto la decisiva importanza che in tali costituzioni vescovili è stata attribuita alle strutture e alla loro organizzazione, le quali sarebbero determinanti la stessa comunità parrocchiale: di esse fanno parte, inoltre, anche i cosiddetti piani pastorali (diocesano, vicariale e parrocchiale), documenti previsionali il cui tentativo di aggiustamento operato dal sinodo, ritenuto consono al tempo corrente, costituirebbe anche la prospettata via di soluzione dei problemi dell’incontro dei fedeli col loro Dio (ciò che mi pare almeno superficiale, comunque prevalentemente documentale, carta e non cuore). Non solo, nel medesimo alveo si collocano le incertezze circa la natura e la stessa definizione di “parrocchia” (che comprende in realtà due entità fra loro ben distinte, l’ente ecclesiastico, persona giuridica, e la comunità parrocchiale), il riferimento acritico a una territorialità che è incerta e problematica, il conseguente sostanziale distacco della vita quotidiana dalla celebrazione eucaristica, nei fatti più rito che sorgente vitale, la sottolineatura prevalentemente istituzionale e non sufficientemente paterna della figura del Vescovo diocesano.
Prevale l’idea che, mediante un impegnativo accavallarsi di luoghi istituzionali di incontro e discussione, così numerosi e frequenti da farli ritenere superiori al numero dei fedeli disponibili ad assumere tali compiti, si possa ricondurre all’ovile un gregge oggi disperso e disorientato, nella convinzione che una simile prospettata macchina “organizzativa”, ad accumulo sedimentario, sia non solo utile ma necessario ed efficace strumento di divulgazione e approfondimento della Parola di Dio.
Non sono di tal parere: la Parola, in sé semplice e diretta, tanto da essere comprensibile anche ai bimbi, dal cuore puro, abbisogna di essere porta e dimostrata con amorevole naturalezza nella vita di tutti i giorni, nelle case, ai crocicchi delle strade, nelle piazze, e non di essere “burocratizzata”, documentata, quando non resa complicata e sostanzialmente oscura, come spesso oggi accade. Sento odore di stantìo clericalismo in tutto ciò, di qualcosa che potrebbe anche apparire contiguo a un indirizzo para-gnostico.
Lo dimostrano ampiamente, peraltro e a mio avviso, i commenti che, sorprendentemente numerosi per il nostro target, sono stati apposti in calce al precedente e già citato articolo sul politeismo rinascente, provenienti quasi tutti da sacerdoti, come mi par d’aver capito, al contenuto dei quali qui rimando.
E, soprattutto, lo dimostrano due elementi: l’uno, dato dall’incontrovertibile disagio del presbitero, che non “sente” più, nel senso più acuminato del termine, la comunità parrocchiale come sua famiglia, dalla quale appare invece sempre più isolato, anche perchè oberato da impegni ultronei pur rispetto a quelli strettamente cultuali, derivanti dal sostegno alle numerose ed eterogenee attività che gli fanno capo, e assorbito dai compiti gestionali e amministrativi dell’ente di cui ha la responsabilità, totale o parziale, discendenti dal diritto statuale e da quello canonico: è un prete che passa larga parte del suo tempo a lavorare, nel senso più impiegatizio della parola, però.
Il secondo elemento di aperta contestazione dell’indirizzo organizzativo ecclesiale ed ecclesiastico oggi apparente è dato dagli stessi concetti espressi, con più alte ed efficaci parole, molto chiare, da Sua Santità Benedetto XVI, il quale ha stroncato una tale impostazione nel corso dell’omelia pronunciata il 10 maggio 2010 a Lisbona: la Chiesa non consiste nelle sue strutture organizzative, non vive di convegni, riunioni o commissioni. “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della Fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno richiesto. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?” Così ha detto il Papa, e noi sottoscriviamo pienamente e con sincera condivisione le Sue parole.
Anche noi desideriamo e speriamo ardentemente che i nostri sacerdoti tornino a “vedere le cose”, ad avere la visione profonda della realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita, e meno delle scartoffie, a saper scrutare nell’anima dell’uomo, per sapergli fornire, al momento opportuno, quel nutrimento che gli è indispensabile.