Mostra “My Beautiful Mongo” nella galleria Thomas Brambilla Contemporaryart di Bergamo. Nel suo Trattato della Pittura, iniziato nel 1490, Leonardo ricorda: per creare l’incarnato di un giovane è preferibile usare nel colore il tuorlo di un uovo di gallina di campagna, più rosso e caldo; per il vecchio l’uovo giusto è il cittadino, più biancastro e spento. Nella decima serie dei Simpson una puntata è intitolata “Homer e la pop art”. Homer distrugge un barbecue nel tentativo di montarlo e viene scoperto come astro nascente della scena artistica capitanata da un elusivo Jasper Johns. In che modo questi due eventi siano collegati lo scopriremo insieme leggendo l’articolo. (di Guido Nosari)
In Bergamo, in via Casalino 25/27, c’è una giovane galleria, giovane lo è in ogni senso: è aperta da poco ed è diretta da Thomas Brambilla (neanche trent’anni). A mio avviso, Thomas Brambilla si caratterizza per il suo modo onesto (intellettualmente) di esporre ed esporsi.
La “Thomas Brambilla Contemporaryart” il 28 Maggio 2011 apre una mostra, “My Beautiful Mongo”. Ci vado. Gli artisti esposti formano una kermesse di tutto rispetto: David Adamo, Alexandra Bircken, Mike Bouchet, Brendan Fowler, Gabriele Picco, Agathe Snow.
Thomas ha occhio, un occhio internazionale. Ed è a Bergamo. Perché Bergamo, culturalmente, se appena si gratta sotto la superficie, ha aperture di valenza internazionale. Poco conosciute, però.
Il titolo dell’esposizione è preso a prestito da un libro, “Mongo”, del giornalista e saggista Ted Bhota, del LA Times. Il saggio tratta, appunto, del mongo, termine usato nello slang statunitense per indicare l’oggetto scartato e riutilizzato, e delle persone che hanno per i più vari motivi la necessità di collezionare spazzatura.
In mostra c’è la spazzatura, ci sono sette artisti che utilizzano nel loro linguaggio oggetti scartabili, quando non veramente scartati (fatto che di per sé presuppone una collezione di tali oggetti). Entrando, ci troviamo di fronte a una colonna di patatine da sacchetto industriale appese a un filo, a una specie di arpa fatta di rami e scarti industriali, a un cumulo di terra troneggiato da fotocopie di banconote ed elmetti. Giriamo la testa e abbiamo (subito riconoscibili) mazze da baseball scorticate poggiate alla parete, foto di operai che scaricano da un furgone malconcio quelle che solo più tardi si riconoscono come opere d’arte, e un uovo di struzzo che nasce da polveri dense.
La presentazione dei lavori è molto discreta, non disturba con improbabili sceneggiature o palcoscenici, in ciò non osa neppure. Lo spettatore può rimanere elegante e a suo agio nel mezzo dei rifiuti, può tornare a casa tranquillo di non essere uscito dal suo mondo nemmeno un istante (forse la vera critica alla collezione è questa).
Ma la questione merita un approfondimento: tra i lavori esposti c’è una linea di demarcazione, un confine netto che separa in due gruppi di opere la galleria: Mongo, e Spazzatura.
Perché se da una parte abbiamo lavori e artisti che utilizzano come mezzo espressivo la spazzatura, dall’altra abbiamo opere che sembrano avere capito veramente cosa sia la spazzatura, e con ciò hanno capito qualcosa in più della società che ci circonda.
Mike Bouchet, nel suo “Figure Study”, incarna perfettamente il primo gruppo di lavori: una bottiglia di olio vegetale pesa su dei jeans griffati che schiacciano un mobiletto da mercato che a malapena protegge dei libri fotografici di Hanson. In questa sua opera Bouchet usa la spazzatura solo come nuovo mezzo di una ricerca che esula dal mezzo stesso, estrapolandolo dal suo contenuto. La spazzatura non aggiunge all’opera nulla che non sia un contro-altare estetico. Me lo rivela l’uso del giallo, che nasce nell’olio, continua nella griff dei jeans e viene richiamato da uno dei libri, il tutto con il ritmo di un vestito d’alta moda: Bouchet ha creato un totem elegantissimo.
La stessa sensazione ho davanti ad Agathe Snow. La sua “Ten (Military Sculpture)” è un apprezzabile tentativo di spiegare un’idea, ma sia gli elmetti che le banconote fotocopiate mi rimandano a un che di scenico. Anche qui la spazzatura è un pretesto. In sé non aggiunge niente a una linea di ricerca che poteva proseguire ugualmente.
Siamo nel Mongo. Attraverso una traduzione filo-statunitense si riutilizza la spazzatura fatta diventare altro. La spazzatura non è più spazzatura, e la sua ripresa in un’opera d’arte è successiva a questa mutazione. Gli artisti usano qualcosa che, quando viene scelto, è già altro dal rifiuto.
L’operazione di mutazione da rifiuto a mezzo artistico non è rinnovabile perché accaduta prima dell’operazione artistica, è avvenuta quando lo spettatore ancora non può vedere niente, e lo spettatore non è più parte in causa.
Il Mongo è molto chic.
La seconda parte è spazzatura, ma in ciò resiste. David Adamo nel suo “Untitled” (mazze da baseball che mi ricordano incredibilmente rotoli di carne da Kebap) ci spiega perfettamente cosa sia la spazzatura, ce lo spiega creandola e disperdendola intorno alla fonte, e dei due momenti credo che il più importante sia il crearla, soprattutto nell’inutilità del gesto che, essendo rappresentativo di se stesso, ne trae il fondamento e motivo.
Il pezzo più poetico dell’esposizione è da attribuire senza dubbio ad Alexandra Bircken, che, con la sua “Soulution”, parla direttamente alle persone che la circondano, chiarendo l’inevitabilità futura di avere a che fare con la spazzatura. Così, l’immediata inevitabilità di ricercarne la poesia. La sua costruzione è un continuo apparire, dalle catene versate in un vaso a una macchia fucsia che alleggerisce inaspettatamente un piedistallo industriale. Anche lei utilizza il rifiuto per parlarci, ma la sua ricerca ne è direttamente influenzata, e la sua scelta ne risulta coerente.
La Spazzatura è parte del nostro vivere.
Così Mongo e Spazzatura: inaspettatamente preferisco la seconda.
Eravamo rimasti a Leonardo e Homer Simpson.
Un tuorlo d’uovo può portare cultura a un sistema che si nutre di ciò che lo circonda. Tutto sta nel saperlo usare. Il sistema si atrofizza quando la ricerca mira a un’estetica per accontentare idee. Allora Homer Simpson può diventare un artista, e la sua opera assomigliare incredibilmente a quella di Agathe Snow….