Giovedi 29 aprile alle 21.00, la compagnia teatrale amatoriale multietnica ha messo in scena le prove della rappresentazione dell’Abbandono. Nello scenario di una mite giornata di primavera inoltrata, nella palestra della Scuola Media Statale “Moro” di Dalmine, la multietnica compagnia della regista Silvia Briozzo, ha rapito l’attenzione dei presenti cercando di trasmettere agli stessi quanto si prova nel momento in cui si viene abbandonati o in cui qualcuno di molto caro ci abbandona. (di Claudio Rossi)
L’evento, a cui partecipavano in veste di spettatori anche degli psicologi dell’Università di Bergamo, e gli attori che lo hanno inscenato sono stati sapientemente e precisamente intervistati e descritti dall’appassionata cronista Silvana Bonanni, attenta osservatrice nonché partecipante attiva all’evento.Con queste brevi note, riprese direttamente da quanto annotato da Silvana nel suo inseparabile taccuino, ci si puo’ immergere pienamente nella singolare e affascinante atmosfera dell’evento:
“Ed eccoci all’incontro. Ore 20.45, puntualissima sono arrivata alla scuola “Aldo Moro” di Mariano di Dalmine, paesino della periferia di Bergamo, dove per strada, se chiedi indicazioni, la prima parola che ti dicono è: “pota!”. C’era già un piccolo gruppetto di gente, poche persone, nell’ampio cortile/parcheggio della scuola, li ho guardati incuriosita e ho riconosciuto alcuni ragazzi del corso di psicologia, ma qualcuno non lo conoscevo, mi sono diretta verso di loro e già pensavo che se fossi stata fortunata avrei già potuto chiedere qualche notizia utile da subito. Mi sono imbattuta in un simpatico personaggio, molto disponibile, che subito si è presentato: “piacere Gugliemo, tu fai parte del gruppo degli ospiti?”. Gli ho sorriso e tendendogli la mano che subitaneamente lui ha portato alle sue labbra, sfiorandone il dorso, gli ho risposto:”Sì, Silvana!”. Il dialogo è iniziato così e subito si è stabilito un clima di fiducia, respirabile dai pochi ma significativi gesti e la voglia di partecipare di tutti.
Poco dopo eravamo nella palestra ad occupare le tre file di gradini di cui dispone, erano ricoperti da legno ben tenuto, l’odore era quello tipico di qualsiasi palestra al mondo, puzzo di gomme da pallone, misto a residui di sudore antecedente ed ormoni di adolescenti, erano le 21.05 e la regista, una donna imponente con la sua presenza e corporatura, arriva con un gran borsone dal contenuto misterioso, ha lo sguardo stanco e un po’ spento, il suo seno ed i suoi capelli biondi, lunghi, un po’ incolti sono rappresentativi di una forte carica materna e protettiva.. Si siede, apre il borsone e ne estrae un pesante apparecchio di quelli che fanno musica infilandoci un cd, la musica che fa partire è coinvolgente e subito fa atmosfera. E’ teatro! Nel frattempo sono arrivati proprio tutti ed Annachiara, il punto di contatto tra gli attori e gli spettatori, comincia a spiegare chi siamo e cosa facciamo lì, tutti sapevamo già, ma chiarire una volta in più, ora che siamo presenti, aiuta a stabilire un dialogo che nessuno vuole negare. Gli sguardi si incontrano, ci scrutiamo, tanta curiosità. Noi, spettatori e studenti, veniamo invitati a non prendere appunti direttamente con la penna, perché questo potrebbe creare distrazione per gli attori e soprattutto deconcentrazione. Anche la regista vuole dire qualcosa e, dopo essersi presentata dicendo il suo nome “Silvia”, parla di rapporto con l’altro, dice che la nostra osservazione sarà particolare perché guarderemo come essi si rappresentano. Nel frattempo alcuni attori si tolgono scarpe e calzini e rimangono scalzi, altri coi calzini solamente, prima di iniziare a fare qualsiasi cosa, prendono accordi per le prove che serviranno per lo spettacolo dell’11 giugno, quando andranno in scena presso il teatro sociale del loro paese.
Silvia vuole farci vivere un momento di condivisione di sguardi e propone quello che lei stessa definisce “momento di integrazione”, ci spiega in cosa consiste: dobbiamo, tutti, passeggiare e quando ci ritroviamo di fronte ad un altro, lo guardiamo profondamente negli occhi, aspettiamo qualche secondo, stringendoci la mano e diciamo il nostro nome. Sembra facile. Non lo è! Ci fa ripetere perché non è uno scherzo la presentazione di se stessi ad un altro. Cinque minuti in questo lento carosello di sentimenti e ci siamo sentiti anche noi protagonisti, ritornando a sedere sui gradini, ora abbiamo una piccola, generosa consapevolezza: ci aspettavano e ci hanno accettati. La nostra ricerca etnografica prende corpo e significato. Cosa è accaduto poi? Con l’esperimento denominato “momento di integrazione” la regista Silvia che d’ora in poi, per comodità, chiamerò semplicemente Silvia, tenendo a mente per chi legge che essa è regista, ha voluto fare in modo che ci conoscessimo tutti attraverso lo sguardo, la stretta di mano e la voce che pronuncia il proprio nome e ascolta quello dell’altro. Tre momenti particolari racchiusi in un unico momento. Potrei definire, se non si sconfina nell’essere azzardati, questo piccolo attimo di conoscenza una sorta di osservazione partecipante, il poter spaziare negli occhi dell’altro, nemmeno ancora conosciuto, appena intravisto, per carpirne tutto il significato dell’espressione del suo sguardo che serve a creare l’interazione sociale, così complessa e articolata, pur rimanendo se stessi e pur volendo entrare nel suo mondo, quel piccolo fugace, eppure eterno attimo, fatto di attimi che a loro volta non sono altro che attimi di attimi fino a rendere infinitesimo quel saper cogliere quello giusto che fa la differenza che smuove che fa capire che ti introietta in un mondo così diverso ma così uguale al tuo, in quanto appartenente a quella medesima razza che si definisce al di sopra di ogni altra: la razza dimensione UOMO
Ho pensato a quanto fosse importante il messaggio che ci siamo trasmessi attraverso gli occhi, ne ho incontrati di spavaldi, ma erano soprattutto quelli dei miei compagni di corso o degli attori italiani che facevano parte della compagnia, ne ho scrutati di tristi, profondamente tristi ed appartenevano ad una ragazza che, la prossima volta, mi sono riproposta di intervistare e che durante le prove si è messa in un angolo e ha pianto e ad un’altra ragazza, studentessa che penso abbia perso qualcuno di recente, poiché nella lettura che abbiamo fatto di alcune frasi da noi formulate, su richiesta di Silvia, ha espresso con le calde lacrime tutto lo sfogo del dolore per la perdita subita. Ne ho incontrati di interessati, incuriositi, compiaciuti, gioiosi, enigmatici ed erano tutti comunque diversi ed espressivi, con alcuni ho saputo dialogare, con altri no, perché all’improvviso guardavano da un’altra parte ed erano occhi di donna.”
Cosa ne dite? Inutile andare avanti… Silvana, con la sua esemplare illustrazione, ci ha riproposto e regalato attimi carichi di sentimento. A leggerli oltre che a capire quanto sia grande l’umanità e quanto siano uguali gli esseri umani sebbene molto diversi nei loro tratti somatici, Silvana ci ha portato a toccare con mano l’intensità di ciascun attimo vissuto da ciascuno di noi, scrigno segreto e poco considerato di enormi e, a volte, tempestose emozioni.
Provare per credere, amici…