Non è facile ritagliare tempo per un’intervista a Giuseppe Cattaneo, top manager responsabile di Pirelli Tyres per tutta l’area Asia-Pacific che comprende Cina, Giappone, Singapore e Australia. La sua provenienza da Calusco e la nostalgia della Bergamasca gli fanno trovare uno spazio tra i mille impegni, per raccontarci un po’ della «sua» Cina. Ci incontriamo da Wagas, a Calusco, un ristorante all’occidentale per chi va di fretta ma apprezza la qualità. La chiacchierata inizia contemporaneamente alle ordinazioni.
La Cina, per molti da noi che hanno vissuto la chiusura di aziende per trasferimento di attività in estremo oriente, è considerata la tana del lupo. È proprio così?
«Direi che la Cina, come nazione-fabbrica di ogni genere di prodotto consumato nel mondo, ha raggiunto il suo apice. Il processo di assorbimento del lavoro dal resto del pianeta dovrebbe rallentare perché i maggiori investimenti si stanno concentrando verso lo sviluppo interno della Cina, soprattutto in direzione del miglioramento di sanità, ambiente, sicurezza sul lavoro e scuola. La competitività senza regole, senza attenzione all’inquinamento, non è più compatibile col ruolo di seconda potenza economica al mondo».
In che modo il governo cinese spinge in questa direzione?
«Il governo lavora sui presupposti per sviluppare il mercato interno creando occasioni di spesa. Costruisce ospedali, scuole, impianti sportivi per invogliare le famiglie cinesi a far circolare i loro risparmi. La qualità della vita sta migliorando giorno dopo giorno».
Il tenore di vita in crescita va di pari passo con l’aumento degli stipendi?
«Perché si possa vendere nel mercato interno cinese, è necessario che vi siano compratori adeguati».
Secondo lei, i cinesi hanno ancora voglia di andare all’estero nonostante siano in crescita così vertiginosa?
«Come turisti certamente. In cerca di fortuna un po’ meno. I tassi di sviluppo garantiscono un buon livello di occupazione. Occorre sperare che il calmiere imposto circa il numero dei figli tenga anche in futuro. Ora il tasso di crescita della popolazione è prossimo allo zero. Se dovesse saltare, i cittadini cinesi in cerca di lavoro aumenterebbero di quaranta milioni l’anno».
Quindi la crescita dei consumi interni della Cina è da considerare un fattore positivo verso una distribuzione mondiale del lavoro più equilibrata?
«Fare previsioni di questa portata è piuttosto complicato. Posso dire che da una Cina tesa alla conquista dei mercati si sta passando a una Cina che diventa mercato. Dall’utile i cinesi vanno verso il prodotto dilettevole; dalla soddisfazione dei bisogni a quella dei desideri. Non c’è più solo la Cina che fabbrica ma anche la Cina che compra. Del resto, nella bilancia dei pagamenti, l’importazione è quasi uguale all’esportazione. La Cina non va più vista come una minaccia ma come un’occasione».
Come ce la caviamo col mercato cinese?
«Come Italia, forse, non abbiamo un approccio da sistema paese, ma comunque ci arriviamo lo stesso. Pirelli fabbrica e vende in Cina».
Cosa consiglierebbe all’Italia per essere più competitiva?
«Di dimenticare le produzioni mass market per concentrarsi sui prodotti in cui riversare il nostro spirito artigianale e il bello che vediamo intorno a noi. Ricordo che un cliente cinese rimase muto dall’emozione mentre lo accompagnavo sul ponte S. Michele di Paderno. Mi spiegò, poi, che lo colpirono la vegetazione sulle due sponde della gola, frondosa e verde come fosse una foresta vietnamita e la campata in ferro ardita ed elegante che paragonò alla Torre Eiffel. Non c’è passo qui da voi, mi disse, dove non si incontri qualche cosa da ammirare».
Gli stilisti e i designer puntano sulla creatività e sull’innovazione. Voi che commercializzate e realizzate un prodotto industriale su cosa puntate?
«Puntiamo sulla qualità e le prestazioni ma non trascuriamo il fatto che lo pneumatico debba essere accattivante nel design, all’altezza dell’auto su cui viene montato».
Cosa si è portato dalla Bergamasca?
«Che non ti regala niente nessuno; che non si lavora mai abbastanza se hai un obiettivo importante da raggiungere e che non devi desistere, soprattutto durante le avversità. Quelli che lavoravano all’Italcementi di Calusco, finito il turno, avevano i campi ad attenderli: sempre sotto. Negli ultimi quindici anni, almeno dodici li ho vissuti in Cina: è stata una maratona, non ho mollato mai».
Lei è direttore anche della fabbrica: che differenza vede tra gli operai italiani e quelli cinesi?
«L’operaio cinese è molto disciplinato e un ottimo replicante: rispetta le istruzioni e fa le cose alla perfezione. Se capita un intoppo, rifà cento volte lo stesso errore. L’operaio italiano è più critico, mette un po’ di autonomia artigianale nel fare un lavoro e di fronte a un problema imprevisto si prende la responsabilità di risolverlo».
Cosa ha acquisito in questi anni di Shanghai?
«Shanghai è una città internazionale: gioca in Serie A con Londra, Parigi, New York, Milano; Pechino è più bella ma non fa parte del grande circuito. Shanghai ha la vocazione di crocevia del mondo. Ti fa incontrare personaggi di culture e lingue diverse. Qui ho conosciuto mia moglie Elena di origine russa, i miei due figli, Leonardo e Federico sono nati in questa che considero la mia seconda città. A Shanghai trovi virtù e vizi di ogni specie e la convinzione che puoi farcela, in tutto».
Il made in Cina è ancora sinonimo di bassa qualità?
«Direi proprio che non è più così. Sono le aziende che garantiscono il livello di qualità: per noi vale il Made in Pirelli. Le “cinesate” ci sono ancora ma qui sanno anche lavorare bene: gli iPad sono costruiti qui».
Che effetto fa lavorare in casa della seconda potenza mondiale?
«In 15 anni di vita cinese l’ho vista crescere ma non mi sono ancora abituato a questa dimensione da seconda potenza che la Cina ha raggiunto da poco. Ciò che impressiona è la puntuale realizzazione dei piani di sviluppo. Se parte della popolazione appare ancora un po’ grezza, non bisogna sottovalutare la capacità di adattamento dei cinesi, lo spirito di sacrificio e l’orgoglio di sentirsi nazione. Questo li porterà a diventare i primi della classe: per capirne di più consiglio di leggere Adam Smith a Pechino, un saggio di Giovanni Arrighi».
Cosa le manca di Calusco?
«Ovviamente gli affetti più cari e poi la quotidianità fatta di piccole cose, i riti ripetuti, la dimensione locale, i casoncelli del negozio sotto casa, la Gazzetta dello Sport, gli amici di sempre e l’Atalanta. A mio figlio Leonardo insegno i cori dell’Atalanta. Nonostante viva in una dimensione internazionale, le radici che mi legano al mio paese sono ben salde. Essere italiani all’estero è un buon punto di partenza. Una forte identità è la base per non smarrirsi in ambienti cosmopoliti: è, anzi, il presupposto per farsi apprezzare e apprezzare la cultura di tutte le persone che si incontrano».