Si parla molto di solidarietà, ma per capire un po’ più in cosa essa consista occorrerebbe maggiormente frequentare esperienze come quella che ho fatto il mese scorso (18-24 giugno), quale geometra volontario, nei luoghi emiliani colpiti dal terremoto. Devo ringraziare il Presidente del Collegio dei Geometri di Bergamo, geom. Renato Ferrari, che nel giro di pochi giorni, dimostrando molta sensibilità e praticità, si è attivato conla Protezione Civilee, quindi, ha richiesto ai geometri del collegio la disponibilità per dare il proprio contributo tecnico in quelle zone.
Ho aderito immediatamente e il caso ha voluto che il giorno seguente, quasi a rafforzare il mio spontaneo gesto, fossi stato contattato da un’azienda emiliana che chiedeva, appunto, un aiuto di tecnici qualificati per far ripartire le aziende: il richiedente è rimasto favorevolmente colpito dal fatto che i geometri bergamaschi si fossero già attivati e resi disponibili.
Il giorno indicato, cioè il 18 giugno, insieme ad altri quattro colleghi di Bergamo, mi sono presentato presso la sede della Regione Emilia, a Bologna, dove, dopo le necessarie spiegazioni circa le regole principali di comportamento e i compiti assegnati, è avvenuto lo smistamento da parte della Protezione Civile: insieme ad altri due colleghi, il geom. Antonio Navoni di Bergamo e il geom. Walter Alberti di Como, sono stato destinato al Comune di Medolla (Modena), posto tra i Comuni di Mirandola e Cavezzo, a circa un chilometro e mezzo dall’epicentro del secondo sisma (29 maggio), mentre per il pernottamento siamo stati alloggiati a Finale Emilia, nel campo di accoglienza n. 1, perfettamente allestito dalla Protezione Civile e dall’Associazione Nazionale Alpini.
Principalmente il compito dei geometri volontari era quello di gestire il C.O.C., cioè il Centro Operativo Comunale, insieme agli uffici tecnici locali: si gestivano e organizzavano le varie attività di sopralluogo delle squadre di tecnici e addetti vari, dalle istanze di sopralluogo per verifiche speditive, alle valutazioni di agibilità o inagibilità degli immobili (Aedes), per poi raccogliere e consegnare i referti ai dipendenti comunali per la stesura delle rispettive ordinanze. Qui mi corresottolineare l’impegno e la grande disponibilità di funzionari e impiegati del Comune di Medolla, instancabili nell’espletamento del loro lavoro, solleciti e aperti a ogni richiesta.
Di là dagli aspetti tecnici, tuttavia, ciò che più mi ha coinvolto e sconvolto è stato il racconto di chi ha vissuto l’esperienza del terremoto, ciò che mi ha aiutato a comprendere la persistente paura che traspare dagli occhi di quella gente, che forse resterà per sempre segnata dal disastro subito.
L’esperienza attraverso cui sono passate le popolazioni dell’Emilia è stata sicuramente shoccante e traumatica, a dispetto della sua breve durata, solo pochi e per noi quasi insignificanti minuti secondi: in quegli attimi sono venuti a mancare tutti i punti di riferimento, si è perso il senso dell’equilibrio, perché si viene sballottati da ogni parte, come in un frullatore (ricordo la storia del micio di una casa che rimbalzava da una parete all’altra senza riuscire a centrare la porta per fuggire all’esterno), il senso dello spazio, perché si muove e si sposta tutto attorno, e si viene pervasi da senso di impotenza, perché la ragion pratica, quella che ci guida tutti i santi giorni, non funziona più, trattandosi di eventi sconosciuti, davanti ai quali essa è incapace di indicare una qualunque soluzione. Inoltre, ci si muove con fatica, più seguendo istinti che altro, e questo suscita terrore.
Per chi era all’interno delle case c’era la sensazione che si chiudessero gli spazi vitali: non riesci a stare in piedi, le porte si bloccano, gli oggetti cadono e i mobili si muovono e sembra che vogliano tutti rovinare addosso proprio a te. Un mondo che crolla, che finisce, la tragica e improvvisa fine di tutto.
Chi era all’aperto ha visto il terreno che si muoveva a onde, come se fosse la grande “ola” di uno stadio, e sopra di essa strade, parcheggi, fabbricati che ballavano, in balia di quest’onda che scuoteva tutto e tutti.
Uno “spettacolo” allucinante.
Un altro aspetto che ho voluto analizzare è darmi la spiegazione del perché, nonostante si siano verificate due scosse telluriche nella stessa zona Emiliana, a confronto di altri sismi ci siano state fortunatamente pochissime vittime, che si trovavano in gran parte nei capannoni e non nelle case: la “buona sorte” è dovuta ai segni precedenti la prima scossa del 20 maggio, quando, tre ore prima che essa si verificasse, a San Felice sul Panaro, nella zona di Finale Emilia, si è udito un fortissimo boato accompagnato da violente vibrazioni, ciò che ha messo in allarme moltissime persone, tanto che quando il terremoto, di tipo ondulatorio, si è manifestato alle 4 del mattino, in tanti erano già rimasti fuori casa per paura.
Il fenomeno sismico ha danneggiato i vecchi fabbricati in muratura, in particolare gli edifici storici, chiese e campanili, cascinali e fienili agricoli, ma in generale ha risparmiato la popolazione (i capannoni meritano un capitolo a parte).
La scossa del 29 maggio, poi, di tipo sussultorio-ondulatorio e con epicentro nella zona tra Carpi e Medolla, essendo la gente ancora del tutto frastornata e, quindi, fuori casa, ha dato il colpo decisivo e pesante soltanto ai caseggiati già precedentemente danneggiati, in particolare a quelli in muratura, antichi o semplicemente vecchi, salvo alcuni casi di edifici nuovi o recentemente ristrutturati, come a Cavezzo, i quali non hanno resistito a tale secondo colpo, fisicamente risparmiando le persone.
Secondo il personale sanitario di soccorso, a rendere patologico il forte shock emotivo è stata la seconda scossa, che agli emiliani ha fatto rivivere l’evento traumatico a distanza di breve tempo, acutizzando così la paura del terremoto, che li tiene in continua ansia per il timore che il fenomeno si ripeta. Questo, anche se apparentemente non lo danno a vedere. Forse non ne son neppure consci.
O, forse, l’ancestrale pacatezza, dignità e riservatezza che caratterizzano quelle popolazioni impedisce loro di manifestare tali sentimenti, quasi per non incrinare i residui tenui legami di speranza che tuttora fra loro reggono.
Un esempio: una sera eravamo seduti in un bar a chiacchierare tra colleghi geometri quando si è verificata una piccola scossa di assestamento, una delle tante, pressoché inavvertibile. Noi non ce ne eravamo neppur resi conto se non quando abbiamo visto la reazione dei ragazzi che erano seduti agli altri tavolini, scattati via all’unisono in un caotico fuggi fuggi generale.
A mio avviso, però, lo shock non è limitato al terremoto: c’è come il timore di perdere la propria identità, il legame con la propria terra e con le generazioni che l’hanno abitata. Ho visto coi miei occhi tante persone recarsi, quando era consentito, come in processione, con gli occhi lucidi, davanti ai monumenti distrutti o lesionati, piangere, inginocchiarsi, specialmente le donne, pregare, spesso prima ancora di recarsi a constatare le sorti delle proprie abitazioni: scene che straziano il cuore, e fanno pensare, pensare, e ancora pensare…
Specifico qui il mio punto di vista riguardo al caso dei capannoni prefabbricati, soprattutto di recente costruzione, che sono inopinatamente crollati, provocando il maggior numero di morti.
Certamente la sottovalutazione della sismicità della zona ha contribuito a non valutare correttamente la progettazione strutturale dei capannoni stessi, in particolare gli ancoraggi sugli appoggi delle travi e delle coperture, ma si è anche evidenziata l’insita fragilità e pericolosità di queste costruzioni, se non correttamente progettate e adeguatamente legate: nella loro concezione “usuale”, esse non sono in grado di reggere compattamente a movimenti sussultori e ondulatori, specie se contemporanei, tendendo a scomporsi e disaggregarsi nei singoli componenti, un po’ come un castello di carte scosso alla base. Le singole carte restano, il castello non più.
Forte e motivante è stata l’esperienza dei sopralluoghi per le verifiche speditive, che ho potuto effettuare in collaborazione con una squadra appartenente al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, con la quale ho messo in atto direttamente le mie conoscenze tecniche e professionali in favore dei terremotati.
L’affiatamento e lo spirito di gruppo che si è subito creato è stato fantastico, bello, spinto dal desiderio di dare risposte al più presto ai “nostri” terremotati. Ne è nata subito una forte amicizia, fraterna, operosa e collaborativa, ampliata poi anche ad altri colleghi ingegneri e geometri, e anche ai tecnici appartenenti ai VV.FF.
Ci siamo sentiti parte di un omogeneo meccanismo di solidarietà, che aveva fondamento nei nostri cuori, il cui scopo primario era quello di aiutare quella povera gente a superare emotivamente il grande shock subito. In quei giorni abbiamo anche ben compreso come la “macchina” (degli aiuti e dei soccorsi) senza il “cuore” non ha neppur senso, nessuna ragione di esistere.
Quel che ci lasciava perplessi era il fatto che molte persone, nonostante fosse evidente che le loro case erano agibili, anche dopo il nostro sopralluogo positivo confermassero che avrebbero dormito ancora fuori dalle abitazioni, magari in una tenda piantata in giardino.
Ho cercato di infondere loro fiducia e far capire quali fossero i veri segni del pericolo, ma la “scottatura” del terremoto li portava a temere “l’acqua fredda”, nel senso che ogni singola fessurazione, anche microscopica e insignificante, veniva segnalata con apprensione. Certo, la paura era ancora così forte da renderli diffidenti, ma non solo: la loro casa, il loro luogo abituale di rifugio, fisico e morale, era diventata “nemica”, fattore di morte anziché di protezione. E anche questo mi ha fatto meditare a lungo.
Tuttavia, ho capito che il nostro aiuto o contributo, in quel momento, era di vitale importanza perché l’avere una risposta dalle istituzioni (così venivamo visti) e in così breve tempo, nel bene o nel male, significava un punto di partenza, da cui guardare avanti, sulle basi di sufficienti certezze e non di fumose spiegazioni, “ballerine” come il terremoto.
Cosa mi è rimasto al ritorno a casa? Innanzitutto un senso di impotenza: noi tornavamo alle nostre case, al nostro lavoro, e loro, i nostri fratelli padani (della valle del po), rimanevano lì, nelle tende, con le loro macerie materiali e spirituali, senza che neppur potessimo dir loro direttamente una parola di affetto, far loro una carezza, gesti di cui hanno tremendo bisogno.
Non possono rappresentarci in questi frangenti i soliti ignobili politicanti di ogni ordine e grado, dispensatori di false promesse e improbabili interessamenti, repulsi dalle popolazioni, come ho avuto modo di constatare, nonostante le infinite balle al contrario che raccontano. Lì c’è bisogno di lavoro e di chi sappia lavorare, e adesso che è finita l’emergenza serve solidarietà effettiva, volontariato vero e competente, ma anche soldi, soldi, tantissimi soldi, necessari per rialzarsi e ripartire.
Soltanto la realizzazione di tali esigenze concrete potrà dirsi rappresentativa, almeno per quanto mi riguarda.
Poi, mi sono rimasti impressi nella memoria gli infiniti gesti di attiva sopportazione della disgrazia da parte della popolazione e al contempo di pacatezza, la dedizione dei dipendenti comunali, l’impegno e la perfetta organizzazione della Protezione Civile, i singoli gesti di riconoscenza, i sorrisi, le smorfie di delusione, il dolore, la paura stampata negli occhi della gente… e tanto altro ancora, che emergerà dalla mia memoria col tempo, dopo la dovuta decantazione.
Da un punto di vista tecnico, ho potuto constatare comela ProtezioneCivile, perfettamente organizzata sul piano dei soccorsi e delle strutture di emergenza, abbia bisogno anche di molte altre competenze, quali quelle volontariamente offerte dai geometri, per essere veramente efficiente nella gestione delle calamità: è stato un primo passo collaborativo quello che abbiamo compiuto, il resto spero venga da sé.
Analogo ragionamento, con una situazione peggiore, si potrebbe fare per la nostra disastrata situazione politica… O no?
Angelo Fassi
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