Sarà l’amabile accento mantovano, o il pragmatismo e la preparazione che contraddistinguono ogni sua uscita. Sta di fatto che Mara Azzi, dal primo gennaio di quest’anno nuovo direttore generale dell’Asl di Bergamo, dà subito l’impressione di una persona su cui fare affidamento. Un sentimento tanto più rassicurante se si considera il suo ruolo: la guida di un’istituzione dedita alla cura della nostra salute a 360 gradi.
Nata a Viadana, nel Mantovano, dove tuttora risiede, sposata e madre di due figli, Mara Azzi, 51 anni, è laureata in Giurisprudenza e ha sempre lavorato nel «pubblico» e in sanità. Subito dopo la laurea ha iniziato la sua attività all’ospedale «Poma» di Mantova per poi diventare direttore amministrativo del «San Carlo» di Milano, dell’Asl di Mantova e direttore generale dell’ospedale di Desenzano sul Garda. Nel poco tempo libero che le rimane sveste i panni del manager e si concede passatempi assolutamente tradizionali: ama la cucina, il cucito, la pittura e la lettura, con una passione particolare per la storia.
E la sua prima esperienza in un’Asl, a parte una breve parentesi di un anno e mezzo a Mantova. Ha incontrato delle difficoltà?
«Devo riconoscere che mi sono dovuta confrontare con i miei limiti. Uno pensa sempre che l’Asl sia qualcosa di diverso, più semplice. In realtà il ruolo di direttore generale, se giustamente interpretato, è estremamente impegnativo e di grande responsabilità. E pensare che alcuni miei colleghi sostengono di andare in ufficio due volte alla settimana…».
E lei?
«Io lavoro 12 ore al giorno e sono sempre molto impegnata. Forse per inesperienza. Ma certamente anche perché cerco di interpretare il ruolo nei suoi molteplici aspetti: programmazione, acquisto, controllo, verifica, attività di prevenzione, gestione del territorio».
Un territorio impegnativo, tra l’altro.
«Vasto, molto ricco di offerte sia pubbliche che private, con tante iniziative ma senza una regia: tutti fanno tutto col rischio di avere dei doppioni e di scontare delle carenze in alcuni ambiti: ci sono fasce di cittadini che non hanno servizi adeguati».
C’è un problema di equità.
«Sì, perché alcuni cittadini hanno molti più servizi di altri. Questo dipende un po’ dalla geomorfologia del territorio, con zone di montagna poco abitate, dove fare l’assistenza domiciliare è un’impresa. Poi c’è tutta la criticità dei servizi territoriali, dove gli utenti fanno fatica ad avere la risposta reale al proprio bisogno: il problema ricade sulla famiglia e si riflette su Comune ed enti locali, sempre più in difficoltà».
Economiche, immagino.
«Non solo. A volte sono più che altro problemi di gestione e di facilità di accesso ai servizi. Il risultato è che la gente deve arrangiarsi come può. Ciò significa che nel socio-sanitario invece di usufruire di una casa di riposo si prende una badante; e che nel sanitario ci si rivolge al privato per evitare lunghe liste d’attesa e burocrazia».
Il cittadino non si sente preso in carico a dovere.
«Esatto. Devo dire che nella Bergamasca molto è stato fatto egli anni passati. Ma c’è ancora molto da fare».
Le risorse sono sempre meno. Il socio-sanitario subirà dei tagli?
«Dall’anno prossimo probabilmente sì. Teniamo però presente che l’atteggiamento dell’Asl dovrebbe essere improntato a una funzione di regia, anche se negli anni passati non è stato così. L’Asl non ha più la funzione di erogare i servizi ma deve programmarli, progettarli, controllarli e pagarli in base al bisogno che viene evidenziato dal territorio. Invece si è affiancata alle aziende ospedaliere del territorio – Riuniti, Treviglio e Seriate – come quarto soggetto. Come ente con funzione di raccordo l’Asl deve inevitabilmente trovare nell’integrazione – soprattutto tra il sanitario e il socio-sanitario – le risposte ai tagli. Il segreto è questo. Il territorio deve dare tutto quello che viene tagliato all’ospedale».
Ci spieghi meglio.
«È come per la chiusura dei manicomi: il territorio doveva essere pronto a ricevere i pazienti psichiatrici in uscita. Ci vuole un soggetto che governi questo aspetto. Ripeto: l’Asl deve trovare attraverso l’integrazione tra ospedale, territorio, servizi sanitari e socio-sanitari la soluzione al calo di risorse».
Razionalizzazione, in una parola.
«Ma non con tagli di servizi. È un settore in cui non si può parlare solo di equilibri di bilancio. Serve un miglior utilizzo delle risorse, che non significa tagliare. Si deve governare meglio, far lavorare con maggior entusiasmo gli operatori, coinvolgerli nel progetto, nella mission. Bisogna fare un lavoro di questo tipo. Il taglio nella sanità è un fallimento».
In una sua dichiarazione ha parlato di potere come spirito di servizio.
«Penso che in un’azienda chi ha più potere sia quello che deve lavorare di più. È una convinzione che ho da sempre, forse per le mie umilissime origini: il capo deve dare l’esempio. Altro che privilegio. Io arrivo sempre prima di tutti i dipendenti e vado via dopo, perché al di là delle cose che si dicono contano le cose che si fanno».
Meglio Asl o ospedale?
«Quando mi hanno chiamato l’ho vissuta come una pugnalata. Mi dispiaceva lasciare l’ospedale di Desenzano. Ora non tornerei più indietro. Perché trovo che in un’Asl il lavoro sia molto più interessante e si possa fare molto più che in ospedale: ci occupiamo di sostegno alla maternità, riabilitazione, anziani, disabili, prevenzione, medicina veterinaria, dipendenze. C’è poi il rapporto con i medici di base. C’è una società che si presenta con i suoi problemi, e in un’Asl si dà un contributo per migliorare la qualità della vita».
La sua carriera si è interamente svolta nella sanità pubblica. La ritiene superiore a quella privata?
«Non ho niente contro il privato. Ritengo però che la mission del pubblico sia altissima perché non c’è di mezzo il guadagno; mentre ad esempio nel privato prestazioni in perdita non se ne fanno».
Si è trasferita a Bergamo?
«Per forza. Da Viadana ci metterei due ore la mattina e due ore la sera. Però ci torno nel fine settimana. Ho due figli grandi e un marito che tra un anno andrà in pensione: vedremo se l’anno prossimo vorrà trasferirsi anche lui qua. Ma a Viadana c’è sempre mia madre…».
Come si trova qui?
«Benissimo. Mi sento molto amata, non so se fanno finta (sorride, ndr). Ho trovato grande disponibilità e avuto solo delle gratificazioni. Insomma, l’accoglienza è stata ottima, a partire dal sindaco fino all’ultimo vigile che mi riconosce. E l’Atalanta mi ha regalato una maglia col mio nome in occasione della partita in carcere tra sindaci e detenuti, a cui ho partecipato. Poi il direttore del distretto mi ha fatto fare una sciarpa nerazzurra».
Ma lei va allo stadio?
«No. Ma hanno deciso che sarei stata dell’Atalanta…».