In un precedente articolo, pubblicato su questo stesso giornale d’opinione (titolo: I politicanti: cosa e in qual modo comunicano) ho esaminato la triste situazione attuale, in cui, a mio avviso, i singoli potentati cercano, fin dall’origine del suo formarsi, di cooptare alla propria polipesca congrega l’opinione del cittadino, di fatto impedendogli o rendendogli difficoltoso lo sviluppo di un proprio e autonomo pensiero sui diversi fatti ed eventi connotativi la vita sociale cui dovrebbe partecipare, e che invece finisce col subire.
Si sono indicati, in forma esemplificativa, alcuni degli strumenti (internet, web etc.) che potrebbero essere utilizzati per rompere tale prassi, la quale funge contemporaneamente da omogeneizzatore e disarticolatore sociale, fondata com’è sulla relativizzazione a priori della realtà, e si è richiamata l’esperienza delle antiche pòleis greche, laddove, caso unico nella storia delle civiltà antiche sufficientemente conosciute e indagate, varie comunità di proprietari terrieri seppero creare vere e proprie unità politiche autoregolamentate, sviluppando culture tipiche, pur inscrivibili in un più ampio quadro culturale comune. Così è nata e si è sviluppata la grande civiltà della Grecia antica, la floridissima (anche economicamente) civiltà greca.
Credo, per contro, che uno dei punti cruciali degli effetti della tremenda crisi in atto, vera e propria guerra finanziaria mondiale, stia nel fattivo impedimento posto dai diversi potentati (partiti, sindacati, lobbies… e chi più ne ha, più ne metta) alle diverse comunità e aggregazioni sociali di sviluppare in autonomia e libertà una propria coerente e attiva cultura, la più completa possibile pur in un quadro d’assieme. Ciò avrebbe impedito che un settore specialistico e di servizio quale è quello finanziario acquisisse una rilevanza totalizzante e si rafforzasse in modo così anomalo da diventare truppe, corredo bellico e campo di battaglia decisivi per le sorti di una guerra dai cui esiti dipenderà per lungo tempo il destino di larga parte delle popolazioni del pianeta.
Non è un caso che gli Stati nazionali in cui tale impedimento è poco o punto incisivo hanno retto molto meglio degli altri agli assalti delle armi finanziarie nemiche. In Italia, dove detto sistema ha raggiunto livelli parossistici, di emergenza sociale, quasi di “status di impronta mafiosa”, la guerra in atto ha prodotto danni assai maggiori di quelli che avremmo potuto aspettarci pur nelle peggiori ipotesi; e altri danni verranno prodotti, potenzialmente irreversibili, perché lungo tale direttrice sempre più peso avranno le associazioni criminali, per le quali i processi finanziari sono pane quotidiano e mezzo di sussistenza e consolidamento, essendo entrati a far parte della stessa cultura mafiosa.
L’autonomia di pensiero, l’autonomia culturale, dunque, che generano anche ricchezza economica, come basi per intraprendere il cammino di una nuova fase di civiltà che sostituisca efficacemente, se possibile ancora secondo rinnovati principi, valori e senso umanistico-cristiani, quella che tra breve finirà, distrutta alla conclusione della prima guerra finanziaria mondiale.
Le culture sono i modi in cui i componenti di qualsivoglia società, presi come singoli o collettivamente, manifestano le proprie esigenze nei confronti l’uno dell’altro, delle aggregazioni cui appartengono, delle altre aggregazioni interne nonché di quelle esterne, delle diverse complessive società con cui entrano in rapporto o del mondo nel suo insieme.
Non c’è società libera, grande o piccola, che possa essere privata dell’espressione di una propria cultura, attraverso la quale vengono poste le norme che la regolano: le società, infatti, devono sviluppare forme sia di civile convivenza sia di fruttuoso adattamento con il loro ambiente umano e non umano, e poi coltivarle e rafforzarle. Esse, dunque, devono articolarsi. Vanno, pertanto, costruite e affinate nel tempo le capacità di agire insieme, ovvero vanno create unità politiche: devono stabilirsi metodi per praticare la giustizia e l’ordine, appianare o prevenire i possibili conflitti interni, respingere le minacce esterne, di qualunque tipo esse siano, organizzare, incrementare ed eventualmente monopolizzare il sapere, in ogni caso introiettandolo. Va dato un significato alle cose e agli accadimenti: c’è bisogno di religione, comprensione del mondo, formazione dell’uomo e modelli.
E’ assurdo, anzi, contraddittorio, pensare che ciò possa avvenire mediante una minuziosa, burocratica e stringente regolamentazione, ciò che il potere tende oggi a fare, almeno in Italia (ma non solo: le “illuminate” strutture europee sono sulla stessa linea), proprio perché tale atteggiamento è anticulturale, quindi, in primo luogo distruttivo delle stesse funzioni delle istituzioni democratiche deputate alla complessiva tutela dei liberi (e leciti) sviluppi culturali della società di riferimento, e in secondo luogo potenzialmente distruttivo della vita stessa della società che vi soggiace, perché non di regola ma di (non tanto) mascherata oppressione si tratta, buona per l’esistenza di un formicaio invece che di un’iridescente società umana.
Nell’ambito di una cultura libera, infatti, occorre anche trovare modi di esprimere e di capire le più varie esperienze, i punti di vista, gli eventi, le loro cause, i trionfi e le paure, di aprire la strada a concezioni e a sentimenti, a seconda di ciò di cui c’è via via bisogno: la norma non può che seguire (e non precedere) tali processi, a maggior riprova dell’illogicità della posizione di potere imperativo di cui sopra. Non vanno, poi, dimenticate le forme specifiche in cui si manifesta la necessità di distrarsi, di ristorarsi, di rallegrarsi, ma anche la sfarzosa, in parte enfatica, autorappresentazione di cui una cultura che tenga a se stessa necessita addirittura come dell’aria per respirare, ciò che qualsivoglia norma non può da sé instaurare.
Dunque, nel processo di formazione di una cultura di solito si stabiliscono e si fissano molte cose: non c’è altro modo di guadagnarsi lo spazio necessario ad agire e svilupparsi. E tali punti fermi, che derivino da disposizioni e adattamenti, imposizioni e sfruttamento di opportunità, tendono a intrecciarsi fra di loro e a raggiungere, da sé e in determinate circostanze, un alto grado di immutabilità.
Qui occorre segnalare importanti differenze, che derivano con ogni probabilità dagli scenari di partenza che a un certo punto si creano o devono acquisire una certa regolarità. Qualunque cosa si assuma dall’esterno, è necessario considerare quali forze emergano come determinanti, come plasmanti di ciò che deve contare o in che modo si rivelino tali: e non solo per i rapporti di forza, ma anche per le concezioni, le forme e tendenze di vita, per i modi di muoversi nel mondo.
Di regola, come già si è detto nel precedente articolo, nella storia del mondo le culture sono state essenzialmente improntate da poteri politici pressoché assoluti all’interno delle aree di rispettivo dominio, di solito monarchie, tribali o imperiali che fossero, capaci in ogni caso – contando su un legame più o meno stretto con istanze religiose – di formare società adatte alle proprie esigenze fin nel pensiero e nella mentalità. La loro durata, tuttavia, è sempre stata direttamente proporzionale al grado di coesione sociale che erano in grado di imporre. Dove tale coesione non c’era, le guerre erano continue, e infine le popolazioni che giudicavano intollerabile la subiezione al potere assoluto di quel sovrano se ne distaccavano, non senza aver carpito le frazioni con esse compatibili di quel pensiero e di quella mentalità.
Qual’era, infatti, la matrice cultural-politica delle monarchie dell’epoca, così come lo è dei potentati dei giorni nostri? L’inculcare saldamente nella testa dei sudditi la convinzione che il proprio dominio fosse (sia) così decisivo e fondamentale che come alternativa restasse (resti) concepibile soltanto il caos. Esse, inoltre, potevano anche venire a trovarsi nella condizione di compiere grandi conquiste militari e amministrative, potevano anche incrementare il benessere, accumulare il sapere, accrescere le conoscenze, erigere portenti della tecnica e realizzare capolavori artistici, architettonici e letterari. E, indubbiamente, a quel punto non era più facile scuotere le basi su cui il tutto si reggeva, perché in larga parte soddisfacente le esigenze sociali, quindi, creatore di cultura. L’eventuale insoddisfazione e l’eventuale ribellione si concentravano non solo sulla legittimità o meno del regime, ma anche attorno allo scopo e all’obiettivo di ricondurlo alla regola nei casi in cui fosse andato di là da certi limiti e nel pretendere giustizia. Se l’unità di un potere autoritario si frantuma, ne sorgono al suo posto altri minori. Se un faraone come Echnaton tenta di rompere con la tradizione, vi saranno ricondotti al più tardi i suoi discendenti. Cambiano le dinastie e i monarchi: ma nella sostanza si prosegue sempre lungo gli stessi binari ormai consolidati, a meno che non sia distrutto tutto l’insieme.
Può accadere tuttavia, anche se molto più di rado, che sia un’aristocrazia a plasmare e a consolidare in maniera duratura, secondo una sua propria concezione, se stessa e il suo mondo. Così almeno avvenne con la repubblica romana. Sembra che negli stessi luoghi gli etruschi avessero inizialmente costituito una forte monarchia. Fu ben presto rovesciata e sopravvisse solo in alcune importanti istituzioni, ma determinante nell’ulteriore formazione del pensiero romano, forse anche nel modo di sentire e sicuramente nella religione e nel diritto romani, fu l’aristocrazia. Fu essa a decidere anche le forme dell’ordinamento politico, della prassi politica e della condotta bellica, l’organizzazione della società e infine le modalità secondo cui furono annessi i territori conquistati; e precisamente in maniera tale che toccasse all’aristocrazia, con le sue forme di convenienza e coesione sociale, il compito di mediare e di decidere tutto, divenendo di conseguenza sempre più indispensabile.
L’opposizione che con il tempo si delineò contribuì alla fin fine solo a stabilizzare il regime, alleviando le tensioni e aiutando l’aristocrazia prima a disciplinare e poi a estendere e a rafforzare il sistema.
In questo modo la repubblica, l’aristocrazia in essa dominante e l’intero ordinamento politico-sociale riuscirono ad ancorarsi in modo talmente saldo che non solo l’istituzione repubblicana rimase incrollabile per secoli, ma si potè sulla sua base anche fondare e amministrare un impero universale. Persino quando precipitò in una grave crisi, dimostrandosi non più all’altezza dei propri compiti e non più in grado di garantire e tutelare la giustizia e la pace interna, non fu facile concepire un’alternativa. Se è vero che Augusto riuscì a fondare una monarchia e a porre fine a numerosi abusi, la fonte della legittimità restò pur sempre il senato, la repubblica. Le condizioni cambiarono solo molto lentamente: a tal punto si era impresso il primo e sempre più radicato ordinamento aristocratico di Roma e del suo mondo.
In un solo caso, come già detto, le cose andarono in maniera del tutto diversa: e non fu una monarchia o un’aristocrazia addestrata all’esercizio del potere, bensì un ceto relativamente ampio di uomini liberi, di «cittadini», distribuito in centinaia di comunità indipendenti, a plasmarsi il suo mondo, a voler essere padroni di se stessi, cioè autonomi.
Tale impostazione è rimasta viva, nonostante le contrarie apparenze, quale parte essenziale della nostra cultura europea, anche nei millenni successivi, e questo perché la formazione culturale medievale e moderna è caratterizzata dal fatto che vi hanno contribuito, una accanto all’altra e in successione, parecchie forze differenti e assai divergenti. Non troviamo, infatti, soggetti dominanti (monarchi o aristocratici) che vi si siano imposti orientando su di sé la loro società e il loro mondo e che siano stati capaci di plasmarli secondo i propri intenti senza consentire il profilarsi di alternative. E, per contro, neppure un largo ceto di liberi proprietari terrieri che abbiano soprattutto mirato a sviluppare e a garantire più o meno le stesse tendenze di vita. Ciò era avvenuto fra i greci, sia pure in modi differenti, in grande libertà, con rilevanti slittamenti del potere fra parti della cittadinanza fino allo sbocco nella democrazia. Alla fine anche quel modello rimase senza alternative nel senso che diversi pilastri di quella cultura non furono mai messi in discussione: e cioè la forma politica della pòlis quale unica possibilità di costituire unità politiche, la stratificazione sociale, la schiavitù, i minori diritti riconosciuti alla donna, la scarsa importanza attribuita al lavoro, la limitazione della scienza alla teoria, il ruolo delle arti e, assieme a tutto ciò, una fondamentale omogeneità nella struttura delle cittadinanze.
Una simile, protratta assenza di alternative non è stata possibile in Occidente. I re germanici che si ritagliarono le loro parti dell’impero romano per lo più non ebbero i mezzi per tenere completamente sotto controllo mediante potenti apparati gli estesi spazi che avevano trovato (o avevano messo insieme con la conquista). Non furono capaci di rendere dipendenti da sé tutte le forze importanti e di creare un ordine in cui tutto potesse incastrarsi in modo tale che la monarchia fungesse, per così dire, da chiave di volta e da garante dell’insieme, né di orientare completamente su di sé anche il pensiero e la mentalità. Certo, per lungo tempo non si conobbero che monarchie. Però come strutturarle restò controverso. I re non solo dovettero corteggiare l’aristocrazia senza riuscire a inserirla nel loro sistema di dominio, ricorrendo semplicemente alle concessioni, ma se la trovarono anche continuamente di fronte, e precisamente in istituzioni di diritto come le diete regionali e imperiali. La loro forza d’improntare di sé il sistema restò limitata.
Accanto all’aristocrazia, anche le città (comprese le comunità rurali e quelle mercantili) acquisirono notevoli diritti propri e premettero per incrementarli e consolidarli. Si diedero propri statuti e, in parte almeno, inviarono rappresentanti alle diete regionali e imperiali. All’interno delle città anche quanti non erano proprietari terrieri, soprattutto gli artigiani specializzati, acquisirono, come cittadini, un rango che nell’antichità non sarebbe stato loro mai riconosciuto. Svilupparono particolari modi di pensare e di sentire. Con una propria etica e, non da ultimo, grazie alla valorizzazione delle professioni e del lavoro, riuscirono a fronteggiare gli aristocratici. E nacquero le prime repubbliche.
Inoltre: accanto al potere secolare c’era quello spirituale. Dovevano far assegnamento l’uno sull’altro. Ma fra di loro poterono anche insorgere considerevoli tensioni e conflitti. All’interno della Chiesa il contrasto fra i comandamenti della divinità ultraterrena e la normale prassi del governo ecclesiastico, fra il culto e la fede poteva diventare virulento. Da ordini monastici che avevano voltato le spalle al mondo terreno scaturirono potenti movimenti di rinnovamento. Riforme e scismi scatenarono lotte tra le più accanite. E molti di questi contrasti ebbero la peculiarità di produrre nuove idee, concezioni ed esigenze, e contribuire a innescare processi di cambiamento di lungo periodo.
A contrastarsi l’un l’altro non erano solo poteri della stessa specie, per esempio una monarchia contrapposta a un’altra (con l’una che avrebbe forse solo acquisito ciò che l’altra avesse perduto): era invece sempre in ballo anche il rapporto strutturale fra re e aristocratici, fra il principe e il suo territorio, fra potere secolare e potere spirituale, fra vescovi e comunità urbane, nonché fra papi e ordini monastici. Fra di loro insorsero costantemente fertili tensioni. Si dovettero concedere sempre nuove libertà che poterono poi essere sviluppate e approfondite. Molto spesso, nel caso di rivolte, il fenomeno non restò nei limiti di sommovimenti temporanei capaci di portare tutt’al più all’eliminazione di qualche abuso, ma sfociarono nella creazione di nuovi diritti e ambiti giuridici. E le repressioni, spesso, non fecero altro che preparare il terreno a una successiva rivolta coltivata nella clandestinità.
In sintesi, vi si agitò una moltitudine di forze differenti, potenzialmente contrastanti, ognuna forte di propri diritti; e questo in uno spazio molto ampio nel quale da un paese all’altro potevano palesarsi grandi differenze, fermi restando però stretti collegamenti – favoriti da quel latino che i ceti superiori avevano in comune – che non erano tanto facili da troncare. Anche quando i monarchi, nell’epoca del cosiddetto assolutismo, si accinsero, tramite gli Stati, a conseguire il monopolio della politica, non riuscirono a rendere alla lunga senza alternative la loro dominazione. Fu il processo stesso a liberare nuove energie spirituali e ben presto anche sociali. E infine apparve chiaro che ci si poteva arrangiare anche senza di loro. Quel che avevano fatto monarchi più o meno assoluti poteva essere proseguito anche da una repubblica.
Si può discutere quando, entro che limiti e in che modi la scienza, l’inventiva e la tecnica europee superarono quelle di altre grandi culture passate o coeve, oppure quelle greche e romane. Si ha l’impressione che tutte queste culture svilupparono le capacità tecniche di cui avevano bisogno a seconda delle differenti necessità ed esigenze tanto spontanee quanto imposte dall’esterno. Nell’Europa del medioevo, e soprattutto in quella dell’età moderna, il processo del miglioramento tecnico e delle conoscenze scientifiche ha assunto tuttavia con il tempo una densità e una dinamicità tali da andare presto oltre tutto ciò che era stato ritenuto possibile e addirittura pensabile. Si cominciò a sperimentare molto di più e molto più sistematicamente di quanto l’antichità avesse mai potuto – e voluto – fare.
Furono fondate università che ottennero un’ampia autonomia. La teologia e la filosofia poterono svilupparsi in sintonia o in contrapposizione, basandosi entrambe sulla Bibbia, sui Padri della Chiesa e su antiche fonti precristiane, stimolate però anche dal dialogo con ebrei e musulmani. Una categoria di giuristi costituitasi molto rapidamente acquisì una grande influenza e un’elevata autorità basate sullo studio del Corpus juris.
Non era facile ricondurre tutto ciò sotto un’unica autorità, considerata anche la rivalità esistente fra i regni e i paesi. Nel complesso i monarchi erano troppo deboli, per di più il mondo che si stava sviluppando era troppo differenziato. Qui e là si potè esercitare la censura, ma non si riuscì mai a imporla ovunque. Ci si poteva sottrarre all’oppressione – vi riuscirono soprattutto le minoranze disponibili alle innovazioni, fra le altre quella degli ebrei – con l’emigrazione, a scapito degli oppressori che si trovarono privi di un’importante sostanza umana. Singoli paesi riuscirono a sottrarsi per qualche tempo a molti cambiamenti, però mai l’intero continente. E le diseguali velocità di cambiamento favorirono la differenziazione e l’emergere di diverse energie in luoghi diversi.
Più e più volte, in quest’Europa medievale e moderna, varie forze pretesero troppo e si proposero programmi troppo ambiziosi. Le risorse risultarono sempre insufficienti. Però si profilarono anche molte possibilità per incrementarle in modo nuovo. Si dovettero favorire l’artigianato, ossia l’economia nel suo complesso, ma anche la scienza, insomma la produzione materiale e intellettuale, per poter reggere all’interno come all’esterno il confronto con le forze rivali. Non si dovette solo puntare sulle innovazioni, ma si crearono anche le condizioni per realizzarle. E spesso si arrivò al momento in cui i più esperti non si accontentarono più del sistema dominante ma ottennero miglioramenti, e che coloro che ne furono svantaggiati non si limitarono alle ribellioni ma si costituirono in alternative. Una quantità sempre più varia di forze si rese disponibile a dedicarsi a un cambiamento non solo esteso ma anche incisivo.
Non occorre seguire l’intero fenomeno fino all’illuminismo, alle rivoluzioni francese e industriale, all’ascesa della borghesia e del proletariato, all’emancipazione delle donne e a tutto il resto. L’Europa del medioevo e dell’età moderna produsse in ogni caso una dinamica del cambiamento assolutamente estranea all’antichità greco-romana. È possibile che la sensazione d’incompiutezza causata dalle sempre insoddisfatte ma virulente esigenze, sia stata il connotato costante e più importante di questa storia europea dall’epoca delle migrazioni dei popoli in poi: la sensazione continua, cioè, che ciò che sembra realizzato implichi già i germi di ulteriori cambiamenti; che non vi sia ordine o condizione che possa soddisfare tutti se non provvisoriamente; che esigenze costantemente inappagate, potenzialmente virulente, siano pronte a insorgere prima o poi per impedire all’esistente di limitarsi a riprodurre sé stesso; per arrivare infine a mettere all’ordine del giorno la questione del cambiamento della società o addirittura della creazione di un uomo nuovo (sia pure nella forma di una quasi totale funzionalizzazione). E solo a questo punto la storia è consapevolmente concepita come il mutamento di tutti i rapporti.
Peter Graf Kielmansegg ha definito l’Europa il «continente della divisione dei poteri». Fu in esso – considerato nel complesso – che si determinarono gli scenari in cui avvenne la formazione culturale medievale e moderna. L’Europa si è trovata in tal modo alle prese con un processo evolutivo molto lungo, mai veramente concluso, che ha prodotto costantemente al contempo il consolidamento e il cambiamento, che ha coinvolto sempre di più anche fattori esterni, fino a quando le più importanti forze propulsive del cambiamento non si sono spostate fuori dall’Europa (mentre al suo interno molte spinte andavano esaurendosi). Tutto ciò che può essere ancora addotto come specificità europea è stato invece presente solo in parte e a periodi.
«Soltanto condensando l’intera energia del nostro spirito in un punto focale e compattando l’intero nostro essere in un’unica forza, noi corrediamo per così dire di ali questa forza unita e la conduciamo artificialmente ben al di là dei limiti che la natura sembra averle posto»: così Schiller descrisse plasticamente le straordinarie possibilità che si spalancarono nell’Europa dell’età moderna grazie alla concentrazione di molti singoli (e di interi gruppi) su particolari approcci e determinate capacità. L’altra faccia della medaglia fu – per dirla di nuovo con Schiller – che l’uomo divenne «solo un’emanazione dei suoi traffici, della sua scienza […] anziché sviluppare l’umanità insita nella sua natura».
Con l’Europa medievale non comincia dunque qualcosa di completamente nuovo? Non ci troviamo forse di fronte a una cultura fondamentalmente diversa da quella antica? Il mutamento strutturale come cifra centrale si può attribuire all’antichità tutt’al più per brevi periodi.
Ma allora perché tutto quest’orientarsi intensissimo e costante del medioevo e dell’età moderna sull’antichità, con una sempre nuova ripresa delle fonti antiche? Che gli impulsi provenienti dagli antichi abbiano dispiegato energie del tutto diverse semplicemente perché il terreno in cui si imbatterono era del tutto diverso? Oppure offrirono forse solo una compensazione per tutti i cambiamenti, per la riduzione dell’uomo a sempre più limitate dimensioni, costituendo un ambito in cui riposare in mezzo a tutta quella fretta, a quella concitazione? Fornendo una base d’indipendenza e di autonomìa per esempio, nel grande come nel piccolo? Un punto fermo in un mondo che aveva tratto dalla fede cristiana molte domande e certezze, e ne aveva proprio per questo ancora bisogno?
O che la continuità con il mondo antico sia stata dopo tutto più forte di quanto comunemente non appaia? Non è stata certamente un flusso intenso e costante, perché sotto questo profilo troppo si è insabbiato lungo il percorso. Però non se ne può neppure parlare come di un esile rigagnolo. Molte cose furono trasmesse attraverso il cristianesimo, religione originaria della Galilea ebraica, la cui testimonianza però fu fissata in greco, tramandata in latino e i cui principi di fede furono esposti con l’aiuto della filosofia antica e dei suoi concetti. Anche durante il periodo imperiale romano, a partire dal III e dal IV secolo dell’era volgare, il cristianesimo aveva già corrisposto in misura crescente alle esigenze di una società non più incline ad accontentarsi della religione pagana e delle sue tradizionali concezioni e interpretazioni del mondo. Una società la cui vivace, filosofica ricerca d’orientamento tese infine a confondersi con quella teologica. Dopo tuttola Chiesaera organizzata secondo modelli romani, si avvaleva del diritto romano e della lingua latina (e insisteva perchéla Bibbianon fosse utilizzata in nessuna delle nuove lingue volgari). In questo modo l’antichità è stata coinvolta fin dal principio nelle radici dell’Europa medievale, e ha poi dato, a mano a mano che se ne è riscoperto di più, frutti sempre più ricchi e copiosi. Ma sarà sempre ben difficile riuscire a decifrare come tutto questo si combinò – anche perché le spiegazioni non si escludono a vicenda – e che cosa significò. Comunque sia: non è da considerazioni di questo genere che può risultare la necessità di far cominciare l’Europa nell’antichità.
Si ha tuttavia l’impressione che almeno sotto un profilo l’Europa sia davvero cominciata ai tempi dei greci: e precisamente nel momento in cui – come scrisse Erodoto nel V secolo a.C. – l’Europa «fu staccata» dall’Asia. Ne conseguì ben più d’una nuova suddivisione geografica. Infatti, e qui per ora mi fermo, il dato che l’Europa sia considerata un continente ha ragioni non tanto geografiche quanto storiche, e ai Greci, cui si deve verosimilmente il suo nome, è anche dovuta la suddivisione dell’Eurasia, che senza di loro non avrebbe mai potuto essere divisa in due “continenti”.