Due comici, Luca e Paolo, quelli del “camera caffé” di Italia 1, hanno più volte ridicolizzato i politicanti italici, tutti, senza distinzione alcuna, in particolare ponendo in fredda luce la pazzesca situazione verificatasi nei mesi scorsi per la prima volta, almeno dall’ultimo dopoguerra: l’esponente politico che veniva unanimemente additato come “peggiore”, in quanto sarebbe esperto più di bunga-bunga che di altro, ha subito il disprezzo proprio di coloro che, manco a dirlo, sono giudicati “pessimi” dalla stragrande maggioranza dei cittadini, tanto da dover ricorrere al “baliatico” dei cosiddetti professori.
La politica dei politicanti fino a poco tempo fa era costretta a subire, in modi e forme quasi penitenziali, da mercoledì delle ceneri (siamo non lontani dal periodo), la cosiddetta satira, peraltro troppo spesso unidirezionale, cioè rivolta soltanto da sinistra verso destra: essa era considerata da taluno l’espressione beffarda e libera del popolo, da salvaguardare a ogni costo in nome della libertà di espressione, sberleffo compreso, da talaltro l’arma impropria della sinistra, brandita là dove il “politichese”, le pastette e gli accordi sottobanco (con eventuale spartizione delle relative mazzette) non potevano direttamente arrivare.
Oggi anche la satira, che è comunque esercizio di acume intellettuale, non può più essere applicata utilmente alla cosiddetta politica, perché non “rende” più, mancando nella politica, o meglio, in quelli che oggi la “fanno”, o fan finta di “farla”, qualsivoglia traccia di idonea “materia grigia”, indispensabile per satireggiare. Infatti, e purtroppo, prevale il pelo esterno al contenuto cerebrale interno, e il caso sopra accennato – la bunga-bunga story -, risalente ad appena qualche mese fa, ben illustra il quadro generale. La politica italiana attuale, perciò, finisce coll’essere adatta non più alla satira ma soltanto a riprese comiche (la commedia è spesso l’anticipo della tragedia), e quelle messe in scena dal citato duo genovese fotografano la bassezza del livello cui la politica stessa è giunta: quasi sempre essa si sostanzia – si fa per dire, diciamo meglio: manifesta – soltanto nell’immagine balorda dell’affabulatore in scena assistito da idonea spalla, restando completamente ininfluenti i contenuti della sua esibizione, più o meno “circense”. Roba che ricorda i fratelli Marx, i fratelli De Rege, Macarietto, Rik e Gian, cioè l’involontaria comicità del cretino di turno, che è comico quando è serio, o finge di esserlo, apparendo convinto di quel che fa e dice, innanzitutto delle scemenze che racconta. I politicanti insorgono all’unisono davanti a simili descrizioni della loro figura e le ritengono espressioni di “antipolitica” (cos’è con precisione? Forse antipartitocrazia? O altro?). Però, qui si sta raccontando soltanto quel che si vede e che vedono e sentono tutti, chiedendosi infine di che qualità possano essere i provvedimenti che costoro adottano nei consessi deputati. Non per nulla qualcuno ha cominciato ad alzare forconi…
L’impressione generale è che i politicanti, a tal punto, neppure abbiano la voglia e l’accortezza di informarsi sufficientemente circa quello che stanno per fare o dire, perché ne percepiscono l’inutilità, quasi fossero consapevoli che, nei fatti, sarebbe loro richiesto soltanto di dar luogo a esibizioni da clown, spesso accompagnate da urla e gesti esagerati: la politica, così come da loro pare essere intesa e applicata, consisterebbe proprio in quella stessa esibizione clownesca, e in null’altro. Tanta scena, tanto agitarsi e poca o nulla spremitura di cervello. Così, tra l’altro, e a danno dei cittadini, non ci si accorge neppure se di cervello ce n’è almeno un poco, da qualche parte, se il frontale ha sufficiente funzionalità… Ma in tal modo loro, i politicanti, non faticano più di tanto…, e sono strapagati lo stesso. Fa bella figura il pagliaccio migliore, quello che fa qualcosa di diverso per attirare l’attenzione dell’inclita e del volgo, quello di cui viene detto che “buca lo schermo”. Fa niente se è scemo… Oggi va di moda il Pierrot triste, quello che piange spruzzando fontane d’acqua dagli occhi, ieri era un buffone agitato e incomprensibile, altre volte un Arlecchino di infimo livello o un Brighella furbacchione e ladresco. Ma le norme cogenti, che essi tengono in pugno, sono una cosa tremendamente seria e, per di più, tecnica…
Si spiega, così, almeno in parte, anche la sopra accennata costante mancanza d’informazione e studio da parte dei politicanti, quando pure ne siano capaci: perché mai preparare argomentazioni serie e approfondite, mettendo in gioco se stessi, nel profondo, se poi queste debbono essere giocate e sporcate in un’esibizione circense? Anche le persone valide, a tal punto, che pur ci sono fra costoro, non possono far altro che desistere e arrendersi.
Per certo verso, può essere considerata figura emblematica di tale stato di cose la dr Irene Pivetti, già presidente della Camera dei Deputati, direttamente transitata – dimostrando senza dubbio intelligenza e coerenza per il suo punto di vista – dal proscenio dei politicanti al mondo dello spettacolo tout court, supportata dall’agenzia dell’attualmente detenuto Lele Mora, l’agente di spettaolo dei più acclamati divi.
Dunque, se tale è il “contenuto” apparente della politica italica odierna, cioè il contenuto della politica dei politicanti, come dire politica “cosiddetta”, e poiché, invece, nella realtà concreta, la politica, quella vera, comunque esiste e opera insieme alla società di riferimento, traducendosi in norme, non resta altro che andare alla ricerca dei veri soggetti di essa, di quegli “altri” che effettivamente “la fanno”, consapevoli o inconsapevoli che siano del loro ruolo. Del resto, la resa dei politicanti dinanzi ai cosiddetti “professori”, e il conseguente commissariamento dei partiti, conferma la bontà dell’argomentazione e legittima il procedimento logico qui seguìto.
Chi possono essere costoro, cioè i “veri” protagonisti della politica? Andiamone alla ricerca, un po’ a tentoni.
In ipotesi, i conduttori televisivi, innanzitutto, i Santoro, piuttosto che i Fazio, i Vespa piuttosto che i Paragone o i Lerner, cioè coloro che conducono il sempre più deprimente spettacolino. Nonostante in Italia la lottizzazione sia stata in qualche modo codificata e abbia raggiunto livelli parossistici (ma non si tratta di un fenomeno solo italiano), essi tuttavia appaiono, soltanto appaiono, si badi bene, comunque esterni e superiori al miserando contenuto della comparsata, la cui qualità direttamente non dipende da loro, un po’ come il domatore rispetto alle bestie di diversa specie che fa esibire. Che magari non sempre sono all’altezza del compito, in quanto scelte male dal proprietario del circo, ma alle quali si deve adattare. Ci sono, poi, quelli bravi, in grado di far apparire quale feroce tigre un felino che è poco più di un micione, e quelli scaltri e furbastri che possono far diventare velenosissimo serpente dell’Amazzonia un innocuo biscione, magari adeguatamente dipingendogli addosso qualche striatura.
Certamente loro, i conduttori, a differenza dei politicanti, s’informano e sanno tutto nei dettagli, o quasi, e in ogni discussione e confronto fungono quindi da necessari mediatori fra il pubblico televisivo e il potere “casuale” e fuori controllo dei clown, purtuttavia a questi ultimi facente capo. Spesso e volentieri, a propria volta, forti di tale ruolo, i conduttori s’arrogano la facoltà di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, mettendo “il dito” sopra uno dei due piatti… Perché, tanto, di spettacolo si tratta: si fa così anche a Forum. Però, che si tratti di spettacolo truccato, di esibizione illusionistica e illusoria, di gioco di travestimento (da politica), o altro, non potendosi dire che di “politica” si tratta, spettacolo è e tale resta. E di esso, inevitabilmente, anche costoro fanno parte, soprattutto perché ne pongono addirittura le regole (che è poi il significato tecnico di regìa).
Dobbiamo cercare altrove, dunque. Cambiamo un poco direzione. Accanto ai conduttori, ecco i giornalisti, segnatamente quelli della carta stampata, da secoli attenta mediatrice in politica, della quale, nonostante ogni approfondimento, costituisce pur sempre e comunque forma di semplificazione. Se la politica si riduce ad esibizione da saltimbanchi, ecco che essa, la carta stampata, semplifica, e rende accessibile e “digeribile” al pubblico, per quanto possibile, anche tale robaccia, in un immodificabile processo di causa ad effetto: da una spesso artefatta complicazione a una magari incongrua semplificazione. Guardando sempre, si badi bene, agli interessi delle rispettive redazioni, mancherebbe altro!.
Ed ecco che in tale ottica, pensosamente, i giornalisti si riuniscono attorno ai tavoli della discussione politica televisiva, guidata dal capocomico di turno, consci della loro superiorità, inattaccabile da parte dei politicanti, ma attenti a far continuare lo spettacolo di cui vivono, perché ai lauti emolumenti di coloro, i clown, debbono corrispondere compensi altrettanto consistenti per le loro congreghe, in un circolo virtuoso (per loro) e vizioso (per i cittadini). Il loro stipendio dipende, infatti, in larga parte dalla voluttà e dal successo dei sullodati buffoni e dalla efficace ricerca di eventuali altri aspiranti attorucoli “bucavideo”.
Però, anche tutti questi protagonisti aggiunti, che pure pesantemente incidono sulle finali decisioni politiche, specie là dove si tratta di concreti e rilevanti interessi da intascare, appartengono pur sempre alla politica “cosiddetta”, al barnum di una rappresentazione che è sberleffo di ogni aspirazione democratica, che è satira comica dell’imbonimento del fesso lavoratore/spettatore/pagante ma rigorosamente escluso da ogni partecipazione, cornuto e mazziato, insomma. Il quale, in quanto tale, “merita” di essere preso per i fondelli, buggerato e spennato con tecniche rapaci. Coloro, infatti, nel loro insieme, sono attaccati come sanguisughe al momento finale della decisione politica, quello dove si incassa (e che è nelle mani di chi sappiamo), ma non partecipano al fenomeno di costruzione e approntamento della politica, il presupposto, cioè, della decisione finale, per quanto questa possa essere distorta rispetto alle premesse.
La politica, infatti e di per sé, affronta temi assai complessi ed è essa stessa un tema molto complesso, fatto di presupposti etici, tecnica giuridica e amministrativa, competenze diverse da assemblare e regolare, analisi dettagliate e sapienti, sintesi coerenti ed efficaci, nonché folgoranti intuizioni, ciò che le persone comuni non possono seguire completamente nelle intime pieghe, altrimenti, diciamocelo, non avrebbero più il tempo di svolgere le loro vite e le loro attività, peraltro potendo pervenire comunque a ben scarsi risultati. Quindi, il ruolo dei media dovrebbe essere quello di semplificare, fornendo al pubblico dei lettori tutti gli elementi essenziali del tema in discussione e del ragionamento sottostante, onde consentire loro di comprendere con esattezza, se pur a grandi linee, e di prendere le conseguenti posizioni: sono loro, infatti, almeno a parole, i detentori della sovranità, in quanto popolo. Occorrerebbe, dunque, anche da parte dei giornalisti, una grande preparazione, un grande studio, un grande lavoro e una grande capacità comunicativa. Già questa osservazione, combinata con la chiara percezione della diffusa scarsa qualità del corpo giornalistico in generale, dovrebbe porre atroci dubbi al riguardo. In fatti, pur essendoci lodevoli eccezioni in tal senso, di solito quel tipo di semplificazione cui si dovrebbe tendere si riscontra ben raramente. Anzi, i pezzi che vengono composti sono spesso e volentieri scritti in funzione della citazione o addirittura della chiamata alla partecipazione allo spettacolo televisivo “da strada”, di cui sopra, che però per tutti costoro è luogo privilegiato di visibilità. Consegue, in qualche modo, la volontà o di restituire un’immagine neutrale o, fin dall’origine, di favorire una parte piuttosto che un’altra, il tutto prescindendo comunque da qualsiasi criterio di oggettività tecnica e teorica, che potrebbe mettere a rischio la finalità pre-incorporata e, attraverso di essa, le altre finalità cui sopra si accennava, più dirette e lucrative.
Per la massa dei giornalisti, dunque, fermo restando che di “sostanza politica” non si tratta, se non come sfondo o chiacchiera, non si può nemmeno parlare di spettacolo circense, perché tale all’origine non è, non nasce come tale. Gli elementi sopra riportati riconducono, invece, al fenomeno “lottizzazione”: ogni giornalista seduto sulla sedia della redazione di un giornale che non viva alla giornata ha la sua “bandierina”, interna o esterna, che solitamente corrisponde anche a una parte politica, comunque a un potentato.
Si tratta di un fenomeno tutto italiano, perchè all’estero si verifica con “sfumature” assai diverse sotto il profilo sostanziale. Ciò non toglie che episodi simili accadano anche in tutto il mondo. Diciamo che il nostro è per definizione altrui il territorio delle pecore nere, dove esse pascolano e si moltiplicano, mentre da altre parti il fenomeno sarebbe soltanto occasionale, onde, quando viene alla luce troppo sfacciatamente, verrebbe pesantemente represso. Con tutti i necessarii distinguo, però: per esperienza so che in Spagna come in Francia esistono fenomeni analoghi, seppure di minore intensità, in ogni caso non legati alla semplice occasionalità. E’ altrettanto vero, tuttavia, che in Italia la lottizzazione è stata letteralmente codificata, raggiungendo livelli parossistici, conosciuti da tutti, tanto che le comparsate televisive dei giornalisti danno apertamente l’impressione di essere gestite mediante ruoli e canovacci che appaiono predefiniti. Alla faccia della libera discussione: agli attori di questa rinnovata e scadente edizione del teatro dell’arte, in generale, sembra essere lasciata soltanto la libertà di usare le parole più acconce alla circostanza, le più efficaci per l’imbambolato spettatore.
A tal punto, dobbiamo chiederci perché e con quali finalità ciò si verifichi. La spiegazione è abbastanza semplice: per controllare fin dall’origine, sottraendola ai cittadini, spesso mediante un’esibizione spettacolare, la formazione dell’indirizzo politico, accaparrando il loro consenso, quasi sempre acritico, in favore del gruppo di appartenenza o di riferimento. L’applicazione di un pensiero personale e libero al caso di specie, cosa estremamente pericolosa, viene disgregata in nuce mediante la proposizione, accuratamente costruita, di tesi preconfezionate e premasticate. Ciò costituisce di per sé un importante aspetto politico, di “politica” vera, è evidente, ma dovrebbe attenere alla sua marginalità e non alla sua sostanza. Diventa fondamentale nel momento in cui al cittadino è praticamente tolta ogni possibilità di partecipazione e controllo attivi: può accorgersi degli eventuali e frequenti inganni soltanto a effetti verificati, quando dovrà ripagare di tasca propria le mascalzonate commesse, nessuno dovendo rispondere, salvo eventuali rei, delle opinioni indotte.
Il fenomeno sopra descritto è speculare alla immane, spaventosa presenza di raccomandati nelle pubbliche amministrazioni, di uomini di partito nelle strutture istituzionali, dove talora (o frequentemente) svolgono compiti che nulla hanno a che vedere con gli incarichi cui sarebbero destinati, essendo assai spesso i favoritismi di parte l’anima delle loro occupazioni quotidiane (anche questi vanno annoverati fra i cosiddetti, mostruosi, “costi della politica”).
La “politica”, dunque, si colloca altrove, ben al di là delle funzioni sociali di quelle strutture di appartenenza, nate per scopi opposti e che oggi fungono da oggettivo impedimento alla partecipazione e al controllo politici del cittadino in quanto tale.
In Italia, la “politica” odierna ha il suo nucleo genetico e generatore nella consociazione, di qualunque tipo essa sia.
Torniamo per un momento alla funzione semplificativa dei cosiddetti media e ripensiamo, per esempio, al 1992, allorquando Antonio Di Pietro si affacciò alla ribalta pubblica: tutti ne sottolineavano le capacità comunicative, mediatiche. Qualche anno dopo, invece, divenne un ‘rozzo’, uno che non sapeva parlare. Ebbene: il punto della questione è che Di Pietro, così come la Lega, dietro l’apparente rozzezza o semplicità, nascondeva una certa ‘perizia’, che non è altro che la capacità di corrispondere al mezzo televisivo, un mezzo che, per natura, semplifica ogni discorso. Entrambi esprimevano concetti chiari, concisi e precisi, che fossero assentibili o meno. Il loro indirizzo politico era ben adeguato alla e comprensibile per la cultura politica del corpo sociale dell’epoca, che finalmente riusciva (o credeva di riuscire) in qualche modo, dopo decenni di occultamenti operati per mezzo di “convergenze parallele” varie, a essere reso partecipe della fase progettuale degli indirizzi.
Nel tempo, anche tale linguaggio si è contaminato, a rozzezza, presunta o meno, si sono contrapposte rozzezze di altro genere e tipo, e così si è costruito lo spettacolo da pagliacci al quale oggi assistiamo, con la conseguente totale estromissione dalla “politica” del pubblico, trattato da beota.
A tal punto, le varie aggregazioni di potere, prime fra tutte quelle dei politicanti, ma di affaristi, imbroglioni e financo mafiosi, hanno avuto mano libera e oggi la “politica” si sostanzia di fatto nei loro affari e interessi, seguendo indirizzi sostanzialmente para-mafiosi o direttamente mafiosi, in cui si coagulano affari e attività in un miscuglio sempre più inscindibile, che sta velocemente corrompendo e avvelenando l’intera società. Infatti, quasi tutte le attività produttive, cioè, in larga parte, quelle attività minimali che costituiscono il tessuto economico norditalico, contraddistinte da orgoglioso e talora presuntuoso individualismo, quasi calvinista nella sua matrice profonda, sono culturalmente inconciliabili con tale visione e, anche quando vi si adeguano, o sono costrette ad adeguarsi, lo fanno “male”, divenendo succubi e, comunque, sono impossibilitate a diventare attori di prima fila del fenomeno. Anche quella mafiosa, infatti, è una cultura, una cultura forte, associativa, che schiaccia il singolo che vi si opponga, alla quale deve in ogni caso corrispondere una tendenza primigenia.
A nulla possono valere gli sforzi dei politicanti più onesti, che pur ci sono in buon numero, perché è la intrecciata tipologia organizzativa stessa delle strutture come sopra descritte che porta inevitabilmente a far prevalere “i cattivi”, i quali trovano sempre un rilevante numero di stupidi, ignoranti, imbroglioni e delinquenti pronto a seguirli. I risultati disastrosi li stiamo ora sperimentando sulla nostra pelle.
Da tale “politica” dobbiamo, dunque, prendere rapido congedo, di essa riappropriandoci personalmente, uno per uno e insieme, come cittadini.
“Ogni volta che gli uomini si sono accinti a prendere congedo dal proprio mondo per trovarne uno migliore al di là del proprio orizzonte, hanno rivolto lo sguardo all’indietro verso la lontana terra dell’antichità e … hanno sperato… di apprendere una verità su cui nessuna tradizione poteva prevalere” (W. Dahlheim).
Nella storia del mondo, le culture sono state essenzialmente improntate da monarchie capaci – contando su un legame più o meno stretto con istanze religiose – di formare società adatte alle proprie esigenze fin nel pensiero e nella mentalità. Il che significa, non da ultimo, fondare il proprio dominio così saldamente che come alternativa rimanga concepibile soltanto il caos.
E’ accaduto anche, molto più di rado, che sia stata un’aristocrazia a plasmare e a consolidare in maniera duratura, secondo una sua propria concezione, sé stessa e il suo mondo, così come avvenne con la repubblica romana.
In un solo caso le cose andarono in maniera del tutto diversa, nella Grecia antica: e non fu una monarchia o un’aristocrazia addestrata all’esercizio del potere, bensì un ceto relativamente ampio di uomini liberi, di «cittadini», distribuito in centinaia di comunità indipendenti, a plasmarsi il suo mondo. Certo, inizialmente fu determinante l’apporto dei membri del ceto superiore, degli aristocratici. Però attribuirono molto valore alla possibilità di vivere liberi e indipendenti (e senza ambizioni di conquista) in comunità decisamente piccole. E non c’erano confini chiari, di natura corporativa, fra loro e gli altri proprietari di terra. In tal modo venne in primissimo piano il punto di vista, e i problemi, della convivenza fra eguali, e non quello della dominazione e dell’esercizio del potere.
Cosa ciò abbia significato è perfino difficile da concepire: libertà non come diritto rispetto o contro un principe, ma all’interno di uno stato, non come spazio libero privato, ma, almeno inizialmente, come qualità e connotazione dei proprietari terrieri in numerose comunità; poi libertà come compito, come missione, quando si trattò di conservarla e di garantirla in condizioni che diventavano via via più complicate; e infine libertà come sfida e come opportunità di vivere in un modo del tutto nuovo. Perché ciò che noi qualifichiamo come cultura dei greci fu il loro elemento vitale.
Dal momento che questi greci vollero, fin dai primordi della loro civiltà, essere padroni di se stessi, dunque autonomi, non dipendenti da alcuno, dovettero il più possibile arrangiarsi da soli, essere cioè capaci di provvedersi di tutto il necessario. Inizialmente nella loro casa, nel loro ambito privato. In misura crescente però poi anche nell’ambito pubblico delle loro comunità. Quel che si poteva sbrigare solo insieme, quel che concerneva la convivenza nella comunità, dovette essere regolato il più possibile dal didentro mediante l’accordo generale. Si cercò di ridurre al minimo le circostanze in cui compiti pubblici dovettero essere delegati a singole persone. Perché ne scaturiva solitamente un potere che non corrispondeva alla concezione che la collettività aveva del proprio autogoverno. Un metodo che partiva “dal basso”, dunque, un metodo, in nuce, che potremmo arditamente definire protofederalista.
In un primo momento, la convivenza in queste comunità, sulla più lunga distanza, forse addirittura di norma, poteva bene o male funzionare. Però si fece difficile non appena certi contrasti si inasprirono. Un’eventualità, quest’ultima, destinata necessariamente a rafforzarsi non appena le comunità, le póleis, si differenziarono, moltiplicando da un lato le pretese (e con esse l’autoritarismo), dall’altro la povertà e il bisogno, e dando così luogo a conflitti.
In questi casi, in assenza di forti istanze superiori, c’era una grande necessità di equilibrio fra i componenti. Come conciliare i litiganti? Come valutare le rispettive pretese? Si dovettero adottare procedure pratiche e profilare pacieri: l’esaltazione della correttezza e del reciproco rispetto che si riscontra nelle fonti di allora deve aver avuto qui la sua origine. E fu necessario riflettere sulla giustizia. Quell’addomesticamento delle passioni, quell’interiorizzazione del controllo degli istinti che in altre culture venivano imposti dall’alto, dovettero essere qui continuamente riconquistati nella cerchia dei membri della comunità. Non si riuscì mai, per esempio, a reprimere (o a far abbandonare) il bisogno di vendetta al punto che solo pochi ancora lo professassero apertamente. Ma ciò faceva parte della ricchezza delle personalità e, conformemente, dell’abbondanza di esperienze umane che i greci potevano fare.
Senonché ciò comportò disagi politici. Per un certo periodo vi si riuscì a ovviare con la creazione di istituzioni. Ma non fu sufficiente, tanto più che lungo questa strada si potè contenere a stento l’ambizione dilagante dei più potenti.
Là dove tutto andava in così larga misura deciso con la partecipazione di un gran numero di persone, i problemi della convivenza – relativi ai conflitti, alla loro composizione e alla conseguente pacificazione, nonché alla produzione di regole – ma anche quelli dell’autoaffermazione dovettero essere ovunque e sempre assillanti, e quindi coinvolgere profondamente l’amplissimo ambito di ciò che nelle situazioni anteriori, non ancora consolidate, gli uomini avevano dovuto escogitare a livello di linguaggio, di accorgimenti e di artifici per meglio orientarsi (e ottenere giustizia) nel mondo.
Là dove non c’è potere che possa tanto facilmente acquisire autorità, i cantastorie, come altri personaggi dotati di specifica competenza, si trovano a dover corrispondere ad aspettative particolarmente elevate. E possono corrispondervi tanto meglio, quanto più sanno cogliere le tensioni presenti nel pubblico, articolando dunque i problemi della convivenza, anche per vie traverse, ma comunque in modo estremamente abile e suggestivo: come nell’Iliade.
Là dove gli uomini sono tanto liberi e i rapporti tanto fluidi, sorge istintiva la necessità di cercare forme espressive per guadagnare sicurezza di sé e per affermarsi, forme espressive della denuncia ma anche dell’intesa con gli altri. In forme audaci, nitide ma anche elastiche se ne preoccupò la meravigliosa poesia lirica del periodo arcaico.
Là dove città si trovano alle prese con gravi difficoltà e violenti conflitti, e non si voglia ricorrere all’istituzione di un potere autoritario come via d’uscita, va quasi da sé che si sviluppi un pensiero politico. Una riflessione che deve cercare di indagare i rapporti di forza esistenti nella città, quelli che potremmo chiamare i risvolti legali della loro reciproca interazione. Perché se le città vogliono essere libere, devono sapersi governare da sole. Però là dove la posta in gioco è alta, le questioni che si pongono relativamente alla coesione del sistema non possono limitarsi all’ambito politico. Devono parimenti coinvolgere il cosmo. Si è addirittura stimolati a volgersi alla filosofia e alla scienza, e si trovano le risposte in un pensiero che si può evidentemente sviluppare soltanto in una società libera.
Là dove molte cose sono in movimento, e dove parimenti non si vuole che predomini un soggetto, occorre trovare criteri obiettivi secondo ì quali tutti devono comportarsi e articolarsi. E non solo nella pòlis. Il risultato sono le teorie sui numeri e sugli intervalli musicali, la ricerca dei precisi rapporti matematici che presiedono alla costruzione dei templi e alla struttura urbanistica, la ricerca di equilibri nella medicina, nello scorrere del tempo e nella politica, più tardi anche l’elaborazione di un canone dell’immagine umana: nel complesso tutta una serie di modi espressivi che mettevano in luce come quella società era assillata dai propri problemi, tanto da costringerla a cercare soluzioni ovunque esse sembrassero profilarsi.
Dal momento tuttavia che i signori del ceto egemone ci tenevano tanto alla loro libertà (e al loro arbitrio), si dovette alla lunga mobilitare contro di loro anche il peso di classi più vaste, il che richiese e comportò a sua volta condizioni e conseguenze ben al di là dell’ambito politico.
Quando poi particolari circostanze portarono la città di Atene a praticare una politica da grande potenza contro il forte regno persiano nell’Est dell’Egeo, divenendo in quel frangente una democrazia radicale, i problemi della responsabilità, della conoscenza, della sicurezza di sé non ebbero davvero più fine. L’intero patrimonio della tradizione fu messo in discussione sempre più alla radice: anche perché tipico di quella società era il voler di volta in volta sapere che cosa c’era in ballo. Furono la tragedia, la cultura intellettuale dei sofisti, la neonata storiografia a occuparsi di tutto ciò. Le questioni furono infine talmente approfondite che ogni dubbio ne produsse un altro e le filosofie di Socrate, Platone e Aristotele dovettero creare basi completamente nuove per comprendere il mondo, la pòlis e l’uomo.
Là dove le aristocrazie, per quanto riuscissero qui o là a impadronirsi del potere, non arrivarono mai al punto di controllare anche il rapporto con le divinità, poiché ogni teologia era innanzitutto (fatta eccezione per alcuni culti segreti) una faccenda di miti e di poeti che attribuivano agli dèi quel che osservavano o postulavano in terra, nella natura. Ben presto anche i filosofi si videro però indotti a cercare il divino nel mondo perché le cose vi funzionassero come si deve. E così fu la filosofia – degli stoici, degli epicurei, dei cinici fra gli altri – la base su cui anche in avvenire dovette orientarsi ogni ricerca di giustizia e di senso della vita, per andare infine a combinarsi con la dottrina cristiana.
Resta certamente un mistero come tutto ciò che allora fu osato, esperito e sofferto pervenne infine alla forma classica. Però è possibile osservare ovunque le ripercussioni d’una formazione culturale in funzione e per amore della libertà; di un grande tentativo per arrivare, in difficili condizioni, a condurre una vita (ma anche a renderla possibile e ad assicurarla, e quindi a produrre tutto quanto serviva a raggiungerla) esente dalla dominazione di un potere autoritario. Quando Ernest Renan parla di un miracolo greco, ciò significa solo che le cose si svolsero in un modo del tutto eccezionale, ma non che non se ne possa spiegare un bel numero.
Homines maxime homines, uomini che sono tali nel senso più alto: così il senatore romano Plinio definì verso il 100 d.C. i greci. Allora erano passati più di duecento anni da quando il ceto dominante romano si era aperto alle conoscenze, alla filosofia, all’arte e alle forme di vita greche, permeandone via via il proprio mondo. Tuttavia i romani erano impostati e rimasero vincolati a una struttura connotata dalla presenza di un potere autoritario: e cioè a quella cornice originariamente repubblicana e giuridica, che fu loro tipica. Nel loro mondo esisteva chi comandava e chi ne era assoggettato, varie forme di dipendenza e di relativizzazione. Ognuno aveva le sue funzioni, il suo posto fisso nella gerarchia, i suoi doveri (sempre che non si ritirasse nella propria villa per dedicarsi definitivamente o per un certo periodo alla vita privata, in larga misura secondo lo stile greco). Tutto ciò non era paragonabile con la vita dei greci: non con quelli del passato che tanto si frequentavano a livello intellettuale, e neppure con quelli del presente.
Quei greci avevano la peculiarità di essere uomini prima che operatori, consoli o senatori. Di non voler lasciarsi inserire a forza nelle regole di una società articolata per ceti. Di non essere abituati a delegare tante cose per ritrovarsi così a dipendere costantemente, al di là d’ogni potere personale (del quale molti romani disponevano), da fitti intrecci di rapporti e relazioni, e quindi a vivere – per così dire – mediatamente. Tutti i greci presi uno per uno, quantomeno quelli del ceto superiore ai quali Plinio appunto pensava, erano parte di una totalità che si estendeva appena al di là della loro persona, che non li sottometteva se non minimamente al proprio servizio, ma consisteva di tutti loro. I greci erano responsabili verso sé stessi esattamente come verso la comunità (e di regola non verso istanze superiori).
I greci furono caratterizzati fin dai primordi dal dover corrispondere in egual misura alle più disparate esigenze della vita. Chi vuole essere indipendente deve dipendere il meno possibile dagli altri (fatta eccezione per quelli di cui può disporre). Là dove si vive in una piccola cerchia, in modo molto concreto e immediato, scarsamente assorbiti da compiti materiali, politici o economici, bisogna misurarsi l’uno con l’altro. Nello sport, per esempio. Là dove la coesione non è garantita da un centro politico, devono intervenire altre istituzioni, per esempio le feste religiose. Il loro significato politico spiega quello delle arti presso questo popolo. E anche qui i greci si misurarono l’uno con l’altro. Dovevano dunque saper cantare e ballare, e in ogni caso provvedere alle loro esigenze domestiche; dovevano padroneggiare le regole dell’equilibrio sociale esattamente come quelle della guerra. Ne derivò un tipo umano solo minimamente articolato in specialisti dediti ad ambiti parziali, tenuto invece a formarsi a tutto tondo, nel fisico, nello spirito, nell’intelletto: il tipo, in sostanza, nel quale ci imbattiamo, sia pure come ideale, nelle statue greche. Ognuno doveva essere il più possibile un tutto, espressione della totalità e fortemente concentrato sulla problematica generalmente umana.
È possibile che sia il fascino esercitato da questa cultura formata in funzione e per amore della libertà, e che si manifesta in tutta l’ampiezza del suo retaggio, a spiegare almeno in parte la ragione per cui l’Europa medievale e moderna ne sia stata costantemente avvinta? Il motivo per cui ha continuato ad appropriarsene pur dopo tanti secoli? D’altra parte, per quanto si possano accostare l’antichità e l’Europa medievale e moderna, permane comunque fra di loro una grande e profonda soluzione di continuità (prof. Christian Meier, titolare della cattedra di storia antica presso l’Università di Monaco in Baviera).
Oggidì i mezzi per riprendere quella traccia di continuità, secondo lo spirito originario della cultura europea, sono innanzitutto proprio quelli non ancora del tutto adulterati dall’uso pagliaccesco di cui sopra, Internet, i social network, le nuove tecnologie, dei quali primariamente i cittadini debbono appropriarsi: la cultura digitale «pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli (financo) della trascendenza», rispetto al quale «occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, persino per quanto concerne il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo… poiché le nuove tecnologie non solamente cambiano il modo di comunicare, ma stanno operando una vasta trasformazione culturale. Si va sviluppando un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e costruire comunione, incidendo sul contesto vivente e pulsante nel quale i pensieri, le inquietudini e i progetti degli uomini nascono alla coscienza e vengono plasmati in gesti, simboli e parole» (Benedetto XVI, durante l’udienza con i partecipanti all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali). I nuovi media, infatti, non modificano solo alcuni aspetti superficiali della comunicazione ma stanno trasformando l’ambiente culturale, offrendo da un lato nuove opportunità a chi ne fa uso, ma, dall’altro lato, influendo anche sulla vita di chi non conosce o non è presente su questi strumenti. Certo, anche se la comunicazione digitale determina nuovi linguaggi e nuove modalità relazionali, non mancano i rischi: «la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità », ricorda il Papa. Ma questi rischi non sono intrinseci ai mezzi della comunicazione, quanto piuttosto «la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni, lasciandosi prendere dalla seduzione linguistica, dall’incomunicabilità o addittura dalla violenza».
Un ritorno alla responsabilità personale, dunque, al pensiero, in questo caso “digitato”, alla ricerca libera della verità, su un piano di parità con l’interlocutore, potente o no che sia. Peraltro, anche i giornalisti addetti a edizioni web hanno da guadagnarci, migliorandosi: già ora essi appaiono sempre più “diversi” da quelli della carta stampata, chiamati come sono a confrontarsi con le diverse opinioni espresse dai comuni cittadini. Un esempio pratico della validità e problematicità di quel che sto dicendo? Pensate all’incidenza che ha avuto nelle scelte della Lega nord l’apertura su Facebook di un apposito profilo di Roberto Maroni, e valutatene le conseguenze: le eventuali successive comparsate sono state di fatto impedite fin dal principio…