Si affaccia nuovamente il tema dell’islamismo, in relazione al fenomeno detto “globalizzazione”, in un momento in cui si paventa “un’invasione umanitaria” dal Nord Africa. Ripropongo il testo di una relazione convegnistica risalente all’anno 2000 la quale, con le opportune contestualizzazioni, mi sembra dimostri come il problema sia rimasto invariato negli anni e sia stato troppo ignorato e poco approfondito, specie sotto il profilo socio-culturale, quindi, politico. (di Francesco Nosari)
Relazione convegnistica su
GLOBALIZZAZIONE E ISLAMIZZAZIONE
Noale, 4 marzo 2000
1. Introduzione
2. Principi, valori e senso cristiani quali termini di relazione fra gli ipotizzati eventi della globalizzazione e dell’islamizzazione
3. La fede in Gesù e la situazione della Chiesa Cattolica nella società d’oggi.
4. Le figure ed entità politiche oggi prevalenti. La posizione politica degli Stati Uniti d’America, potenza mondiale attualmente dominante.
5. La globalizzazione come fatto nel quadro politico generale descritto.
6. Globalizzazione ed universalizzazione (o mondializzazione).
7. Necessità di nuove istituzioni… e di una nuova etica.
8. I fattori di squilibrio nello sfruttamento della globalizzazione.
9. Le cosiddette multinazionali.
10. Gli Stati Uniti d’America come istituzione.
11. Le potenzialità morali del mondo cristiano.
12. L’Islàm, breve analisi della Rivelazione a Maometto.
13. L’Islàm: breve profilo della sua struttura religiosa e teologica.
14. L’Islàm: cenni giuridici.
15. L’islamizzazione quale possibile effetto politico.
16. Difficoltà di natura religiosa nei rapporti fra Islàm e Cristianesimo.
17. Islàm ed ideologia: un rapporto non chiaro.
18. Globalizzazione ed islamizzazione: interconnessioni e sconnessioni.
19. Conclusione.
1. Introduzione.
Il tema posto a oggetto di discussione, di per sé amplissimo, quindi già difficilmente delimitabile per le esigenze di una comunque temporalmente ristretta trattazione, per di più a voci plurime, si presenta da un lato d’estrema attualità, e per certi versi anche “pericoloso”, giacché può esservi sospetto, e forse qualcosa di più, che, da un lato, in un’incongrua e artificiosa saldatura di quel binomio (globalizzazione e islamizzazione, appunto), si annidi il fondamento e la speranza degli attuali campioni del “mondialismo” (e dell’attaccamento alle poltrone) per continuare a mantenere, anche in rappresentanza d’interessi contrari a quelli europei, quel potere sull’Europa che allo stato dei fatti arrogantemente vi esercitano, resistendo a ogni tentativo contrario, da altro lato, e all’opposto, che si debba assolutamente lottare contro entrambe le componenti del binomio, prese da sole e insieme, perché di per sé foriere di oppressione e di gravi rischi, e, dall’altro ancora, si voglia “aprire” a posizioni che sono sostanzialmente prive di una rigorosa base teoretica e che per lo più si estrinsecano in soggettivismi fatti di apparentemente buoni e tolleranti sentimenti, in realtà condizionati irrimediabilmente dal presupposto che al centro di quel mondo ci debba stare l’ego proprio o del gruppo di appartenenza.
Peraltro e inoltre, credo che il tema posto abbisogni pure di una piccola opera di centratura, o bilanciatura, se si preferisce, al fine di impedire che da esso si debordi e, disperdendosi, si possa dar luogo ad infiniti rivoli, difficilmente collegabili fra loro e, quindi, di scarsa pratica fruibilità.
In fondo, finora, vale a dire al momento del mio intervento, si è soltanto accennato, di sfuggita, al fenomeno della globalizzazione e si è parlato soprattutto delle regole giuridiche e delle abitudini, nonché dei comportamenti sociali e privati degli islamici, dei possibili effetti d’ogni genere di un’eventuale, parziale o totale, islamizzazione della nostra società, il tutto visto però come fenomeno a sé, senza ancora esaminare il rapporto, se esistente, che intercorre fra i due fenomeni a tema, salvo quanto detto, nella sua relazione, dal qui convenuto Padre Abrahamovic, della diocesi di Vienna.
Cerco di spiegare il senso del mio rilievo: la globalizzazione come fenomeno a livello mondiale è un dato di fatto, una realtà esistente che tocchiamo con mano ogni giorno, ogni volta che utilizziamo mezzi di comunicazione (telefoni, giornali, riviste, televisioni, computer), ma anche ogniqualvolta passeggiamo per i nostri centri urbani, o, oggi, per i centri commerciali, semplicemente guardando le vetrine, là dove non possiamo non notare l’infinita, ma anche omologata, gamma esposta di merci e prodotti provenienti da ogni parte del mondo, contemporaneamente disponibili a Venezia come a Milano, Monza, Bergamo, Vienna, Torino o New York, fino alla più piccola delle nostre località.
Meno piacevolmente o utilmente la costatiamo o, almeno in questo caso, crediamo di costatarla, quando ci rechiamo alla pompa della benzina, con i continui aumenti di questi giorni, oppure allorché veniamo informati delle variazioni in negativo dei nostri risparmi, investiti in fondi comuni o altro, generate da una crisi finanziaria scoppiata in chissà quale parte dell’orbe terraqueo ma che ha una diretta incidenza sui mercati di tutto il mondo, quasi colpendoli al cuore, senza riparo o mediazione alcuni.
Sono dati di fatto coi quali ci confrontiamo ogni giorno e che necessitano di adeguato approfondimento, che ho cercato di svolgere più compiutamente nella relazione scritta (vedete qui, sono venti o trenta pagine, piuttosto fitte), della quale in questa sede convegnistica darò soltanto alcuni spunti, perché altrimenti faremmo notte: vi rimando pertanto a detta relazione finale, già stesa in forma conferenziale e che integrerò, o meglio, che la mia solerte assistente, che qui vedete, integrerà con quanto dirò qui, ora, e con quanto emergerà dal nostro dibattito odierno, per eventuali ulteriori approfondimenti e chiarimenti successivi, avvertendovi fin da ora che essa è più analitica, questo sì, ma, purtroppo, anche più “pesantina”, e che comunque non potrà avere un carattere del tutto sistematico, proprio perché discendente anche da una verbalizzazione fatta al momento. La consegnerò, integrata, grammaticalmente e sintatticamente corretta, nei prossimi giorni, forse anche domattina stessa al Comitato promotore. Ora procediamo.
Appare del tutto evidente che la civiltà e la cultura islamiche non possono essere direttamente rapportate ai fenomeni cui accennavo: per dirla in breve, ed anche in modo rozzo, se si vuole, ma spero efficace, non è che quando incontriamo per strada un islamico possiamo dire di incontrare l’Islàm. Mettere in diretta correlazione globalizzazione e islamizzazione (dell’Europa, preciserei, perché per gli altri continenti il rapporto si presenta ancor più problematico) può quanto meno generare equivoci e, di primo acchito, potrebbe dar luogo a malintesi di quel tipo. Per tornare all’esempio dell’incontro per strada, semplicemente in quel momento incontriamo una persona, che per i cattolici è un fratello, non scordiamolo (e su questo ritorneremo più avanti), la quale per lingua, caratteristiche somatiche, abbigliamento e altro supponiamo sia un islamico, salvo poi scoprire che è un copto piuttosto che un arabo cristiano.
Voglio dire che il dato direttamente rapportabile alla globalizzazione è al più la facilità, che oggi ci è data, di incontrare e doverci confrontare con quantità sempre più rilevanti di persone provenienti da regioni e paesi lontani, lontani anche e soprattutto sotto il profilo degli stili di vita, dell’educazione e della cultura. Ma null’altro.
Occorre pertanto, a mio avviso, al fine di trattare utilmente il tema proposto, trovare un termine di relazione valido per i due distinti argomenti posti in discussione, al fine di rendere sufficientemente agevole il confronto e la riflessione su di essi, vedendo se e dove sia possibile collegarli od integrarli.
2. Principi, valori e senso cristiani quali termini di relazione fra gli ipotizzati eventi della globalizzazione e dell’islamizzazione.
Ritengo che, per un cattolico del Nord Italia, figlio di quei popoli che hanno sentito i morsi della Riforma protestante e la forza dei rimedi della Controriforma (non per tutti i popoli italici è stato così), i termini di relazione logici e imprescindibili siano quelli riferibili alla “Cristianità” e al “Cristianesimo”, e ciò perché da un lato la fede, la religione e la morale cristiana, e cattolica in particolare per noi, hanno improntato e permeato di sé la civiltà, l’educazione e la cultura dei nostri popoli, come peraltro, seppur con modalità differenti, quelle di tutti i popoli europei e d’origine europea (nell’intero Occidente nessuno può dirsi non cristiano, per parafrasare una celebre frase di Benedetto Croce, e ce lo conferma Josè Saramago, portoghese, Premio Nobel per la letteratura nel 1998, il quale, nel professarsi totalmente ateo dice di avere una mentalità cristiana, «e non poteva essere altrimenti – aggiunge – perché questa religione e questo Dio fanno parte della mia personalità»), e dall’altro lato perché la globalizzazione è prodotto tipico di questo “mondo occidentale”, di matrice “cristiana” nonostante tutto, onde credo che ben si possa nella fattispecie utilizzarli in tale funzione di termini medi e ambivalenti di relazione.
Quindi cercherò, per quanto è nelle mie capacità in materia e nei limiti di tempo consentiti e utili per non annoiare, (vi annoierete, e tanto, semmai, quando avrete a disposizione la relazione finale) di analizzare i fra loro strutturalmente diversi fenomeni della globalizzazione e dell’islamizzazione in relazione ai fondamenti (in senso lato, molto lato) della fede e della Religione cristiana, e della confessione cattolica in particolare, e quindi, di conseguenza, in relazione alla civiltà, all’educazione e alla cultura da quelle derivate e che ancor oggi improntano di sé, nel profondo, magari, per certi aspetti, anche inconscio, la vita delle nostre comunità. (Si tratta, insomma, di esaminare i due fenomeni, della globalizzazione e della islamizzazione, in relazione al fondamento cristiano o d’origine cristiana della nostra vita sociale, e, ancora e oltre, in relazione a questo, valutare la loro incidenza e le reciproche influenze. Tale è il procedimento adottato, fondato sulla considerazione che l’unico elemento di correlazione fra un fenomeno tecnologico, quale è la globalizzazione, e uno stile di vita dettato da Allah non può che essere quella matrice cristiana nell’ambito della cui pervasione si è generato il fenomeno e che sola è in grado di correlarsi a una visione “religiosa” della vita, che è legge nell’Islàm).
3. La fede in Gesù e la situazione della Chiesa cattolica nella società d’oggi.
Partiamo, dunque, nel nostro cammino, che si avvierà in modo non propriamente spedito (occorre ragionare su queste cose con un po’ di calma e approfondimento d’analisi), da una brevissima, forse inadeguata, perché molto parziale, in quanto limitata a ciò che qui ci serve, citazione del Vangelo, l’unica fonte disponibile per la conoscenza diretta di Gesù, che, se ben guardiamo, già fin d’ora appare sullo sfondo come la vera figura centrale di tutto il discorso, e non solo per quanto abbiamo detto, figura che per i Cristiani dovrebbe comunque essere sempre al primo posto in ogni loro visione della realtà, anche quella di prevalente aspetto tecnologico.
In Matteo 16, 15-17, Gesù chiede ai suoi discepoli: «Voi chi dite che Io sia?». Risponde Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù, allora: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei Cieli». Gesù è, per noi che in Lui crediamo, per coloro che in Lui credono, il Figlio di Dio e il Messia. Punto e basta. È una posizione radicale, che non accetta opinioni: o è così, oppure non si crede, non si è cristiani.
Il Cristiano appartiene a coloro che sono convinti che certe verità sono assolute e immutabili, e proprio per ciò è annoverato, dalla moda culturale imperante, fra coloro che sono considerati irragionevoli, come ha avuto occasione di rilevare Sua Santità Giovanni Paolo II nel Suo recente messaggio alla Pontificia Accademia di Scienze Sociali, giusto la settimana scorsa. Ciò non significa che la Verità cristiana sia un’ideologia, che si abbia la pretesa di imporre agli altri il proprio concetto di ciò che è giusto e buono, ma deve essere chiaro per ogni cristiano che la libertà propugnata dal Vangelo attraverso l’insegnamento di Gesù può raggiungere il suo pieno sviluppo ed espressione soltanto nel perseguimento e nell’accettazione della Verità, quella con la V maiuscola (Appuntatevi quanto ho detto ora, perché, più in là nel discorso, parlando dell’Islàm, servirà a marcare alcune differenze di non poco conto).
È quanto i Cristiani da lungo tempo non fanno, o, se pur fanno, perseguono con animo tepido ed in modo troppo individualistico. Se provate a chiedere in giro alla gente chi sia Gesù, non si ricava alcuna certezza, ma tutt’al più un’opinione: è un mito, quasi un Babbo Natale dell’Occidente come Orfeo lo era per l’antica Grecia, un uomo leggendario, mai esistito, che proprio in forza della sua inesistenza ha potuto rivestire i caratteri della divinità, un’idea divina, una fede che in una comunità ha assunto le sembianze d’uomo, oppure un genio, o ancora un genio religioso, che ha intuito con chiarezza e intensità inarrivabili l’ultima verità delle cose, scoprendo la paternità di Dio, il culto «in spirito e verità», la legge della carità. Ancora, un genio filosofico, che ha rivelato il primato della coscienza soggettiva e il primato del mondo interiore su quello esteriore, un genio sociale, che ha affermato la sostanziale uguaglianza fra gli uomini ed ha esaltato la ricerca della giustizia, un genio politico, che ha introdotto nella storia umana l’impegno e l’ideale della “liberazione” da tutte le prepotenze e da tutte le oppressioni esteriori (un Cristiano non può essere indifferente a fondate richieste di libertà). E c’è anche chi osserva che Egli è un uomo certamente esistito, ma del quale è impossibile sapere alcunché di certo, in quanto i documenti in nostro possesso ci parlano del Cristo fatto oggetto di fede, d’amore e d’adorazione da parte della comunità primitiva, ma non ci dicono pressoché nulla su chi sia stato veramente il Gesù della storia: dunque, Egli sarebbe un enigma storico che non sarà mai risolto (vedi le approfondite riflessioni sull’argomento di Sua Eminenza il Cardinale Giacomo Biffi). In tutte queste affermazioni c’è un bagliore di verità, ma non si tratta certamente di Verità cristiana.
I Musulmani Lo annoverano fra coloro che sono stati dotati del dono della profezia (è il profeta dell’ihsan, cioè della generosità-amore, sigillo della santità; cfr. ROGER ARNALDEZ, Jesus dans la pensèe musulmane), insieme a San Giovanni Battista e a Zaccaria, se non sbaglio, e oggi anche gli Ebrei tendono a vedere in Lui un profeta, e, tutto sommato, quanto meno sotto il profilo spirituale, forse Ebrei e Musulmani Gli riconoscono un ruolo e un’importanza ben superiore a quella attribuitaGli in concreto dalla gran massa dei cosiddetti cristiani.
Fra costoro, o, meglio, fra coloro che si dicono tali, ben pochi ne troverete che vi diranno che Gesù è il Figlio di Dio, il Messia, secondo la risposta di Simon Pietro, «il Risorto», e sottolineo quell’articolo «il» continuamente ripetuto per marcare la decisività e l’unicità del suo avvento fra di noi, cioè di Colui che ha vinto la morte, Colui che oggi è ancora veramente, realmente, corporalmente vivo, che noi stessi possiamo e speriamo d’incontrare. E proprio qui sta la causa di tanta reticenza, proprio perché qui sta la ragione della più profonda e irriducibile divisione fra gli uomini (Atti degli Apostoli 25,19; cfr. anche Luca 2,34-35 e 12,51), perché questo è il motivo della collocazione del Cristiano vero fra coloro che sono irragionevoli, di cui sopra abbiamo detto. Perché è difficile essere credenti, è difficile proclamare la propria “pazzia” di fedeli. Gesù, fatto salvo l’atteggiamento di chi sia ancora attanagliato dal dubbio e dall’incertezza profondi; o lo si rifiuta, disprezzandolo, o davanti a Lui ci si inginocchia: non ci sono alternative.
Affermare e sostenere queste cose, quindi, manifestarsi come credente, oggi non conviene più («Il peccato del mondo è questo: che non hanno creduto in me» Giovanni 16,9), ed ecco che allora si affonda nella melma del qualunquismo religioso, della religione del benpensante, nell’ONU delle religioni, nella New Age, nel generico spiritualismo e, di conseguenza, nell’intorbidamento d’ogni verità e certezza, anche, e a maggior ragione, in campi non strettamente religiosi, come quello della politica, dove non ci si mette in gioco così completamente e dove le convinzioni sono meno profonde.
Mi sembra, invece, certo che, se si vuole affrontare un confronto di base “religiosa”, come quello con l’Islàm, occorre avere ben sicuri i propri fondamenti, anche per chiarirsi quelli di un eventuale dissenso, per poi poter procedere al confronto con dati di fatto che dalla nostra cultura occidentale, che lo si voglia o no, sono stati generati.
A tanto perbenismo religioso, a questo stato di cose hanno contribuito senza dubbio i laicisti, gli avversari, i veneratori della Dea Ragione, emblema, a mio avviso, della ridicola superbia dell’uomo: mi chiedo, qui, con quali mezzi, nel loro contraddittorio deismo, possano credere in buona fede di affrontare un serio confronto con norme comportamentali che hanno a base una religione di per sé “irrazionale”, in quanto fondata sull’imperscrutabile volontà di Allah, che tutto può e tutto dispone, e nulla di Sé dà all’uomo. Ma ci arriveremo più oltre.
In larga parte, tuttavia, a tale stato di cose hanno contribuito i Cristiani stessi, e ancor di più i cattolici, io per primo, non alimentando adeguatamente la loro fede, non facendosi testimoni di Gesù e non sforzandosi di applicare nella vita d’ogni giorno, con caparbia costanza, i principi, i valori e il senso del Suo annuncio. Rinunciando perciò a confrontarsi, momento dopo momento, col loro Fratello Nazareno e a chiederne l’aiuto con la preghiera. È la cosiddetta secolarizzazione, che vorrei io stesso capire di quanto e come si differenzi dall’ateismo pratico.
Oggi, sostiene il filosofo ebreo franco-tedesco André Glucksmann nel suo ultimo libro intitolato La terza morte di Dio, «in questo continente di atei che è l’Europa non si tratta più di sostituire Dio [con le ideologie], ma è il suo stesso posto che non esiste più». Invece che secolarizzazione, io proverei a dire tragedia, oppure tragedia della secolarizzazione, o dell’ateismo, se così intesa. Sottolineo un’altra volta che, per chi è ateo, è estremamente difficile confrontarsi con chi fortemente crede in Dio, (e ancor di più se “follemente” crede in Gesù). Il problema di fondo, dunque, anche nei rapporti con l’Islàm, è il rifiuto aprioristico di Dio, largamente diffuso nella società occidentale, che è stata plasmata dal Cristianesimo. Si tratta di una evidente contraddizione in termini, che non può non esplodere, prima o poi.
Osservo che un avvenuto processo storico di secolarizzazione di tale portata non avrebbe potuto verificarsi se non ci fosse stato un analogo processo all’interno delle stesse strutture ecclesiastiche, che avrebbero dovuto essere pungolo, stimolo, fattore di conoscenza, di divulgazione e di trasmissione intragenerazionale della Fede cristiana al suo stato più puro e bello. Mi guardo dall’affermare che non lo siano state mai e per nulla, ma ho l’impressione che tale azione si sia affievolita nel tempo per le incrostazioni che vieppiù si sono accumulate su di esse.
Quindi, cercando di non perdere il senso delle proporzioni, provo ora a porre sotto la lente d’ingrandimento alcune di quelle che ritengo appartenere alla categoria delle incrostazioni “velenose”, per vedere di ricavarne un’indicazione circa i loro effetti sulla secolarizzazione interna alle strutture ecclesiastiche.
Pongo alla vostra attenzione un fatto che, secondo me, è emblematico al riguardo:
Al capitolo IV n.31 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium si dice testualmente: «Col nome di laici si intendono tutti i fedeli cristiani, a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa: i fedeli cristiani cioè che, incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, resi a loro modo partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, esercitano nella Chiesa e nel mondo, per la parte che li riguarda, la missione di tutto il popolo cristiano».
Non può sfuggire il fatto che la definizione del laicato cristiano avviene per differenza, cioè facendo rientrare in tale definizione in generale tutti coloro che non sono membri dell’ordine sacro e dello stato religioso, precisandosi che spetta ai vescovi, quali successori degli apostoli, e ai loro collaboratori, gli ordinati, la direzione, nel senso più lato, della casa del Dio vivente, la Chiesa (ibidem, capitolo III).
Intervenendo ai lavori conciliari il giorno 8 ottobre 1964, di giovedì, l’Arcivescovo di New Dehli, Sua Eminenza il Cardinale Henry D’Souza, fece rilevare che era ormai necessario che i laici dovessero essere considerati e trattati come dei veri e propri adulti: «nihil sine Episcopo», frase contenuta nella costituzione De Ecclesia, non avrebbe mai più dovuto significare «nulla se non per iniziativa e secondo le idee del Vescovo, nulla se non ciò che il Vescovo esplicitamente abbia ordinato od approvato!». E proseguiva il presule indiano affermando che tra le cose che il Concilio avrebbe dovuto eliminare spiccava il clericalismo: «Fratelli, – diceva – siamo noi, clero cattolico, veramente preparati ad abdicare al clericalismo? A considerare i laici come fratelli nel Signore, a noi eguali per dignità, anche se non per ufficio, nel Corpo mistico? A non arrogarci, come in passato, è stato fatto, responsabilità che sono loro, cioè a lasciare ad essi ciò che è di loro competenza, come il campo dell’educazione, del servizio sociale, della amministrazione dei beni temporali, e così via? Volete degli esempi? Cominciamo dall’alto: la Chiesa è rappresentata in varie organizzazioni internazionali. Perché ciò deve avvenire sempre per mezzo di sacerdoti? Non possono, nelle congregazioni, molti sacerdoti essere sostituiti dai laici? Perché non potrebbero i laici essere cooptati nel servizio diplomatico della Santa Sede, così da reggere qualche Nunziatura Apostolica? Molti altri esempi si potrebbero dare, sul piano universale, nazionale, diocesano, parrocchiale e di varie istituzioni, in cui i laici possono utilmente sostituire i sacerdoti, così che essi si possano dedicare a quel compito sacro e sacramentale per cui sono stati ordinati. Se in tutta la Chiesa non ci fosse una radicale riorganizzazione in questo aspetto di estrema importanza, sarebbe vano ogni discorso sul nuovo sviluppo da dare all’azione evangelizzatrice».
Le parole appassionate del Vescovo, pronunciate umilmente quale Vescovo missionario, come egli stesso affermò, sono tuttora di estrema attualità: la Chiesa, o, meglio, le strutture ecclesiastiche, non hanno avuto la lucidità e la forza necessarie per battere risolutamente questa strada, e noi vediamo che al progressivo venir meno nelle nostre Parrocchie del numero dei sacerdoti, non supportato da sufficiente ricambio (la denatalità vale anche per loro), non corrisponde un subingresso dei laici nei luoghi che non sono direttamente preposti al «compito sacro e sacramentale» del sacerdozio, gli uffici delle Curie diocesane in primis.
Questo sostanziale privilegiare l’attività burocratica, amministrativa e gestionale, che è attività tipica del “mondo” o del “secolo”, come dicono i preti, secondo me, oltre ad aver dato una sostanziale importanza direzionale anche in materia “sacra” a quegli uffici, ha di fatto grandemente secolarizzato anche l’attività propria dei sacerdoti, oberati da compiti e incarichi di ogni genere e che trovano sempre meno il tempo per recarsi a benedire le case dei loro parrocchiani piuttosto che a trovare gli infermi, per studiare piuttosto che preparare adeguatamente le omelie o le varie riunioni: l’organizzazione burocratica pare prevalere sul dono di sé da parte del prete. E questo favorisce grandemente quel perbenismo religioso di cui dicevo prima, condito di un ritualismo che scarnifica la Fede.
Ed ecco che oggi ci troviamo, non soltanto per queste cause ma anche, secondo me, in misura rilevante per esse, ad avere una Chiesa cattolica che è da tutti tirata per la giacca a causa del suo potere politico sempre maggiore, che è dato sì dal vuoto di potere che si è storicamente creato nella nostra epoca, ma che è supportato anche da un’organizzazione senza pari al mondo, per di più a base volontaristica; Chiesa che, nel contempo, è però debolissima nell’annuncio del messaggio di Gesù, scarsamente profetica: sono ben pochi oggi quelli che hanno il coraggio, si deve dire, di dare la stessa risposta di Simon Pietro.
Con un errore a mio avviso colossale, dovuto in larga parte a miopia da burocratismo e intellettualismo, la Chiesa cattolica, dopo la caduta del muro di Berlino, ha sperato in una nuova esplosione di fede, che avrebbe sostituito l’ideologia marxista, ritenuta ormai crollata fra le macerie dell’impero sovietico (e non è vero che tale crollo sia avvenuto, come esamineremo più oltre). Una simile posizione, secondo il mio parere, era ed è semplicemente pazzesca, poiché tende a porre la Fede cristiana sullo stesso piano di un’ideologia, in contrasto con lo stesso specifico insegnamento di Gesù, costantemente ribadito dal regnante pontefice, come detto, accettandosi così, implicitamente e di fatto, o essendo vicini a farlo, l’opinione intellettualistica largamente diffusa, anche in campo cattolico, la quale sostiene che certe ideologie di questo secolo, subdolamente ammantatesi della maestà e della potenza di una religione, possano effettivamente aver sostituito Dio per un certo arco di tempo, per un determinato periodo della Storia.
Per un credente è una bestemmia, ma è anche un’affermazione illogica: così non è e non può essere; in tale guisa argomentando, si denota la propria pochezza di fede ma anche uno scarso raziocinio, poiché l’adesione al Cristianesimo, anche sotto un profilo puramente teorico, richiede comunque, anzi, ha per presupposto la conversione del cuore, la voglia di incontro personale con Gesù, e non corrisponde e non può corrispondere in nulla alla convenienza o alla necessità di un trasloco da una casa ideologica ad un’altra. Insomma! Accidenti! Andiamo! Come si fa a sentire negli atenei italici, anche cattolici, simili pazzie! Non si dicono nemmeno negli ambienti più lontani da noi!
E infatti, quanto auspicato da detti intellettualisti, e quanti “cattolici” fra loro, lo ripeto, non è accaduto, ovviamente, e ne abbiamo le prove, proprio perché il Cristianesimo non è un’ideologia. E proprio perché non è ideologia può confrontarsi con altre religioni e con quei popoli per i quali la norma religiosa è legge.
Questo, a mio parere, visto sotto un’angolazione pur assai parziale e funzionale al mio ragionamento, lo stato della nostra Chiesa, della quale tutti noi cattolici siamo parte e, quindi, responsabili, laici, diaconi, ordinati e vescovi.
Nel restante mondo cristiano, l’annuncio di Gesù è forse maggiormente sentito dai fedeli, ma manca un’unità di intenti e di direzione: la pratica della Fede diviene un fenomeno ristretto, quasi locale, limitato a gruppi sostanzialmente chiusi e spesso relegato nell’intimità. Gesù era un personaggio pubblico.
4. Le figure ed entità politiche oggi prevalenti. La posizione politica degli Stati Uniti d’America, potenza mondiale attualmente dominante.
Analizzato lo stato “pratico” attuale del mezzo di relazione, passo all’analisi della situazione politica generale, il corpus su cui siamo chiamati a ragionare, il dato di fatto situazionale.
Crollato l’impero comunista sovietico, oggi, sotto il profilo politico, abbiamo due figure di grande rilievo al mondo: il Presidente degli Stati Uniti, cioè colui che rappresenta la massima potenza economica e militare mondiale, e il Papa, il quale si sforza di raggiungere al più presto l’unità dei Cristiani, essenzialmente per l’ispirata visione che Egli ha dei doveri del Suo alto ufficio, che comprende il tentativo di combinare e saldare le reciproche forze e debolezze sopra descritte, ma insieme a ciò ponendo anche le basi, come effetto politico, ma non solo, evidentemente, per la creazione della più grande potenza morale che non sia mai esistita sulla Terra.
Grandezza e difficoltà contemporanee per la nostra Chiesa cattolica e per le altre Chiese cristiane, dunque.
Di esse, della grandezza e delle difficoltà, intendo, io credo sia ben conscia l’altra potenza, quella statunitense, che tutto vuol dominare dopo aver vinto la “guerra fredda”, che non vuole ostacoli sul suo cammino per l’imperio totale, che ritiene spettarle a buon “diritto”, al punto che:
1) ha trovato il pretesto, complice la colpevole inconsistenza internazionale degli attuali governi degli Stati dell’Unione Europea e il pusillanime servilismo di quasi tutte le cosiddette forze politiche europee, per sganciare bombe nel cuore della nostra Europa, stravolgendo le regole del diritto internazionale, fino ad ora fondate sulla sovranità dei singoli Stati, distruggendo tutti i ponti serbi sul Danubio, rendendo non navigabile l’arteria fluviale di sviluppo che storicamente collega l’economia tedesca all’Est e ivi creando, invece, un’enclave incontrollabile in mano alla criminalità organizzata, che, in quanto tale, potrà giovarsi dei benefici della globalizzazione e nell’ambito della quale ha mano libera, e possibilità di rinforzarsi e crescere quella albanese, che è di estrazione musulmana (nelle regioni montane dell’Albania e nel Kosovo si coltiva la pianta della coca e si produce cocaina, lo sapete, credo. Abbiamo una nuova mini-Colombia fuori della porta di casa!);
2) ha neppur velatamente minacciato lo stesso trattamento per la culla, politica e culturale, della Mitteleuropa, l’Austria (permettetemi di dire: dopo Bergamo e la Lombardia, la mia seconda Patria), sollevandole inoltre contro anche tutti gli Stati dell’Unione Europea (a guida prevalentemente di “sinistra”), fatto che, privatamente, Sua Eminenza Christoph Schoenborn, Arcivescovo di Vienna, ha commentato con molta “perplessità”, in attesa di dire eventualmente e pubblicamente la sua;
3) ha consentito che un ex-comandante del Kgb, Vladimir Putin, definito «un rifondatore (non un epigono!) dello stalinismo» da Ielena Bonner, moglie del compianto Premio Nobel per la Pace Andrej Sacharov, sterminasse un’intera popolazione, quella cecena, in cambio ricevendo una consistente riduzione del debito pubblico russo, oltre ad una dilazione di dieci anni, a tassi di favore, per la residua parte del debito stesso. E in Ucraina, nazione che sta cercando di ridurre il più possibile la sua dipendenza energetica nei confronti della Russia, dalla quale dipende per l’85% del fabbisogno, i consulenti americani del governo appoggiano la lobby atomica, nonostante i reattori di Cernobyl siano tragico monito a intraprendere ancora una strada del genere senza la disponibilità di idonea e aggiornata tecnologia, e nonostante la presenza nel territorio del Donetsk di ricchissimi giacimenti di carbone che, adeguatamente sfruttati, garantirebbero a quella regione sviluppo e prosperità;
4) Inoltre, cosa mai vista in tutto il secolo scorso, il prezzo del petrolio, in epoca di pace, sta vertiginosamente salendo, mettendo in ginocchio le economie dei popoli europei, mercé soprattutto gli accordi stipulati dalla potenza d’Oltreatlantico con gli sceicchi arabi e con la Russia, altro grande produttore di petrolio, accordi che comprendono il mantenimento di un ormai incomprensibile embargo nei confronti dell’Iraq e la diminuzione della produzione petrolifera da parte del Messico, direttamente controllata dalle compagnie statunitensi. Se sul mercato fosse disponibile anche il solo petrolio irakeno, non vi sarebbe crisi petrolifera, che lo si sappia;
5) La Germania, traino dell’Unione Europea, è stata distrutta nella sua componente politica fondamentale, di indirizzo europeistico. Prescindendo dagli ambigui fatti che hanno ciò causato, è un dato che tutta la compagine che faceva riferimento al Cancelliere Kohl è stata disintegrata. E proprio questa settimana la Casa Bianca ha respinto la candidatura, pienamente appoggiata dall’Unione Europea, a direttore del Fondo Monetario del tedesco Caius Koch Weser, tra l’altro socialdemocratico e “ulivista”, per dirla all’italiana, quindi non certo in contrapposizione politica al Presidente statunitense Bill Clinton. Weser, però, è convinto assertore del primato dell’economia sulle esigenze della finanza, quindi, della produzione di beni sulla remunerazione dei capitali e, perciò, incline a promuovere una riforma del Fondo stesso, di stampo tedesco. Si sta cercando di individuare l’ambizioso “traditore” o “utile idiota” di turno fra gli stessi europei, e già si fanno i nomi di chi potrebbe essere: un “sinistro” italiano pare essere il favorito, anche perché sembra ben appoggiato, salvo tradimenti interni. Costui, se fossero vere le voci che corrono, secondo me, più di tutti gli altri pare incline a crogiolarsi, con apparente indipendenza “professorale” nel caldo brodo dell’esercizio del potere oppressivo, burocratico, «democratico, socialista e sovietico», secondo la famosa triade del defunto corrispondente impero, un tempo, «democratico, liberal, clintoniano e ulivista» oggi, e chissà, «democratico, liberista e schiavista» domani. Tant’è, il potere oppressivo di natura burocratica è sempre uguale, e sempre si definisce democratico, e in questo, purtroppo, sono proprio coloro che si collocano a “sinistra” ad avere grande esperienza nell’esercitarlo, offrendo risultati concreti al padrone di turno, sempre che non ambiscano a diventarlo loro, il padrone, come in seguito diremo. Si dice, come pettegolezzo, che costui potrebbe essere Giuliano Amato, socialista di lungo corso, già cassiere del defunto partito socialista;
6) Parimenti, ma è cosa assai più grave, l’ing. Angela Merkel, che però non conosco a sufficienza (debbo dirlo subito), tedesca orientale ben inserita nei meccanismi burocratici della fu Deutshe Demokratische Republik (DDR), è la più probabile candidata alla presidenza della CDU: con ottime probabilità, sarà lei, figlia di un regime totalitario, per strana combinazione, a succedere, almeno così mi si dice, ora a Wolfgang Schäuble (e ad Helmut Kohl), dopo i noti fatti cui prima accennavo, nella presidenza del partito democristiano tedesco ma, in seguito, nel cancellierato. E qui mi chiedo: non avranno proprio avuto nessun ruolo la Stasi (i servizi segreti della defunta DDR) ed il Kgb nello scoprire quei fondi neri che da decenni erano depositati in Svizzera e che da parecchi anni erano stati utilizzati dal partito democristiano tedesco? E i servizi americani e lo stesso governo americano, poveri ingenui, erano proprio all’oscuro di ogni fatto inerente o, per caso, non hanno avallato il tutto? Questi qui che possiedono ed usano Echelon, strumento di spionaggio in grado di conoscere ciò che fate in stanza da letto! Ma vi sembra possibile che avvenga una cosa del genere nel paese chiave della nascente Unione Europea senza che la clamorosa valenza dell’evento non sia stata considerata, valutata e soppesata in ogni dettaglio? E guarda un po’, tutto a vantaggio di una tedesco-orientale (e chi conosce appena un poco la Germania sa in cosa consiste, quanto grande e quale sia il problema della ex-Germania Orientale e dei tedesco-orientali – vedi al proposito le perplessità del leader bavarese Edmund Stoiber). Ma via, andiamo! Cerchiamo almeno di essere seri! Tutto questo, ripeto, a prescindere dal valore effettivo dell’ing. Angela Merkel, che potrebbe anche rivelarsi una piacevole sorpresa. Speriamolo!
7) In Cechia, l’antica Boemia, la maggior candidata alla successione dell’attuale Presidente della Repubblica, Vaclav Havel, gravemente malato, è né più né meno che l’attuale Segretario di Stato Usa, Madeleine Albright, quella delle bombe in Serbia, boema di nascita ma statunitense a tutti gli effetti: immaginate cosa significherebbe avere nelle strutture politiche europee, nelle quali fra breve entrerà certamente la Cechia, quale partecipe di esse e delle loro decisioni, un ex Segretario di Stato USA. Come minimo non verrebbe adottata alcuna decisione contraria agli interessi della Potenza d’Oltreoceano e la stessa potrebbe condizionare pesantemente e dall’interno quelli europei: neanche fosse un proconsolato romano (cfr. CICERO, Contra Verrem). E consideriamo che, quand’anche la sullodata signora o signorina (è tanto brutta che non fa differenza, si offendono sia le signore sia le signorine) non dovesse accettare la carica, come è probabile, essendo la cosa troppo sfacciata e scoperta, certamente verrebbe nominato qualcuno che le sia gradito, quando non sia di sua “sicura fiducia”, per usare una terribile e vetusta espressione dei nostri anni Cinquanta;
8) A tutti i costi gli Stati Uniti hanno imposto all’Unione Europea di accogliere la domanda preliminare di ammissione all’Unione stessa della Turchia, con un procedimento che pare essere inverso rispetto a quello di sostegno degli insediamenti israeliani in Palestina, ciò che comporterebbe la piena libertà della popolazione turca, di religione prevalentemente musulmana, di scegliere il proprio domicilio sul territorio dell’Unione, esportando così le differenze demografiche, religiose e culturali che la contraddistinguono, nonché lo stesso problema curdo;
9) Quanto all’Italia, ventre molle e porta dell’Europa verso il Mediterraneo, è assalita da migranti disperati che nei loro paesi non trovano più di che sfamarsi, oppure che vengono allontanati dai paesi stessi in quanto indesiderati, cui la struttura statale italiana non sa o non può porre freno alcuno, e che in parte rimangono, clandestini, sul territorio dello Stato, alimentandovi disordine e, fatalmente, criminalità e in parte lo attraversano per raggiungere gli altri paesi europei.
Nel crearsi di una tale situazione generale, in continua fase di sviluppo unidirezionale, io vedo anche il fatto che gli Stati Uniti, sotto la guida del loro attuale Presidente Clinton, ci stanno presentando il conto della cinquantennale contrapposizione e difesa, di cui noi europei ci siamo giovati, alle e dalle mire espansionistiche dell’impero comunista.
5. La globalizzazione come fatto nel quadro politico generale descritto.
Abbiamo detto: analisi del mezzo valutativo e analisi dello stato di fatto politico, parziali entrambe, ovviamente. Passiamo ora a esaminare il primo dei due elementi a tema: la cosiddetta globalizzazione, ovvero la Rivoluzione industriale aggiornata e potenziata a livelli impensabili fino a qualche decennio fa.
Se è esatto il quadro della situazione da me rappresentato, dobbiamo vedere sotto luce diversa il fenomeno della globalizzazione: esso, come ho detto all’inizio, è un fatto, determinato dalla non prevedibile, fino a pochi anni fa, accelerazione delle comunicazioni e, di conseguenza, dalla moltiplicazione delle possibilità di concludere transazioni mercantilistiche, saltando a piè pari la catena delle mediazioni e intermediazioni tipologicamente determinate ed assestate e convenzionalmente accettate che fino ad ora avevano retto la produzione e il commercio, e che ora, quasi di colpo, si rivelano antiquate ed inefficaci. Ciò dà come conseguenza la possibilità di influenzare dall’esterno, direttamente o indirettamente, le economie nazionali in misura mai prima conosciuta.
Questa accelerazione mercantilistica, dovuta a nuovi ritrovati e applicazioni tecnologici, con le inerenti possibilità di sviluppi futuri e relative conseguenze, nasce dagli strumenti di controllo militari messi in atto dagli Stati Uniti d’America, con impiego enorme di risorse (e indirettamente pagati anche da noi), per tenere a bada l’Impero Sovietico.
Ovviamente, allorché quelle tecnologie sono state rese disponibili al pubblico, hanno trovato soprattutto negli Stati Uniti la gran quantità dei loro utenti (ancora nel 2005, si prevede, sarà lì concentrato almeno il 27% dei navigatori virtuali totali), anche e soprattutto per la presenza su quel territorio delle tecnologie e dei ritrovati necessari per usarle.
Queste tecnologie e questi ritrovati per la miglior utenza della cosiddetta “nuova comunicazione” progrediscono ogni momento e sono oggetto di commercializzazione sistematica, producendo un diretto controllo dell’accesso all’informazione, anche soltanto per il fatto che solo una parte dei possibili utenti, specie quelli non statunitensi, può permettersi, e ancor più lo potrà in futuro, di acquisire hardware, software, connettività e formazione adeguati, proprio perché in via di continuo perfezionamento e concentrati nelle impersonali mani di pochi, per di più non vincolati ad alcuna forma di responsabilità sociale.
Si ha notizia in questi giorni (Süddeutsche Zeitung, riferito al The Economist), ad esempio, che la tecnologia informatica di base di internet, il web, è in fase di superamento, in quanto fra breve da sostituirsi con la grid (griglia), fondata su reti ad alta velocità che consentiranno il collegamento di migliaia di super-computers e data-bases nel mondo, rendendo disponibile per tutti gli utenti una capacità di calcolo e d’accesso ad archivi oggi incredibile e sterminata, il tutto ovviamente, ed è logico, con sede di progettazione, sviluppo e attuazione negli Stati Uniti d’America, sul cui territorio avranno sede le relative centrali di controllo e distribuzione.
Il descritto stato di cose ci fa meglio comprendere il fenomeno delle iperconcentrazioni, degli oligopoli e dei monopoli che osserviamo nelle reti, nell’industria dei softwares, nei fornitori di contenuti: è la legge dell’«economia virtuale», quella dei profitti crescenti, ossia la sindrome del «vincitore pigliatutto», come ha avuto modo di ben spiegare l’ingegner Philippe Queau, direttore dell’Unesco per l’informatica e le tecnologie dell’informazione. Su questo banchetto di profitti incontrollato e incontrollabile, almeno allo stato attuale, si sono gettate, oltre alle grandi imprese del settore, anche tutte quelle strutture economiche, le cosiddette multinazionali, le quali già oggi agiscono in regime di trust o monopolio nei singoli settori produttivi e commerciali, e che, stanti gli enormi profitti generati dal fenomeno, ben possono consolidarli e aumentarli a dismisura, in ragione della loro potenza, sfruttando tali tecnologie anche quali moltiplicatori degli stessi profitti fino a oggi derivati dalla specifica propria attività.
La globalizzazione, dunque, favorisce la creazione di strutture economiche extra, sovra e multinazionali, le quali, per la loro stessa spaventosamente accresciuta dimensione, provocano flussi montanti, i quali scalzano dal basso i controlli di frontiera degli stati nazionali, minacciando di far crollare l’edificio, poiché è la velocità di circolazione, quindi l’elemento temporale, che li caratterizza, e non più la dimensione spaziale, per la quale sono predisposti i controlli degli stati nazionali stessi, che sono rimasti sostanzialmente controlli di frontiera.
La globalizzazione non solo accelera la velocità delle comunicazioni, ma anche affievolisce o annulla i confini.
Con tutto questo e nonostante ciò, la globalizzazione non è di per sé un male, non ha contenuto valoriale, come invece sostiene il qui presente teologo austriaco, anzi, viennese (Vienna è città a me molto cara, abbiamo scoperto di avervi numerose conoscenze comuni), padre Abrahamovic, dal quale in tal senso dissento.
È chiaro che questo fenomeno offre anche opportunità nuove, liberalizza, almeno in teoria, il mercato e la circolazione delle conoscenze, apre alla spontaneità e creatività sociali, può segnare la fine degli apparati burocratici che, anziché essere di servizio del cittadino, tutto intendono controllare e dirigere.
Inoltre, in una società chiusa in esasperati soggettivismi e individualismi, quel “mostro demoniaco”, come talora e anche qui è stato definito, che è internet insegna nuovamente a comunicare, a scrivere, a mettersi in giuoco, a dire la propria, da parte di tutti, anche di coloro che possono avere difficoltà comunicative: si apre una nuova e diversa era di socialità. Peraltro, nello stesso tempo, la comunicazione spersonalizzata via internet disabitua ai rapporti personali, distanzia gli interlocutori e aggrava, per esempio, le difficoltà di relazione dei malati di patologie ansiogene e psichiche in generale.
Ancora, il fenomeno medesimo genera impotenza nelle strutture politiche tradizionali, nella certezza giuridica e nell’efficienza dello stato amministrativo, che è il medium attraverso il quale le società democratiche possono autotrasformarsi, nella sovranità dello stato territoriale, nell’identità collettiva e nella legittimità democratica dello stato nazionale.
È però altrettanto vero che certamente, e questo è un bene, quelle incertezze dovranno portare alla creazione di nuovi sistemi sociali e a nuovi modi e stili di vita (in cui maggiore dovrà essere la partecipazione e la responsabilità dei singoli e dei gruppi sociali, le famiglie in primo luogo), divergenti da quelli attualmente esistenti, dogmatici, vecchi e inadeguati, sostanzialmente risalenti alla fine del Settecento. I nuovi sistemi sociali, è mia convinzione, dovranno essere fondati su tradizioni passate di strutture sociali e su scale di valori prevalenti in certi territori, prescindendo dalla loro corrispondenza a quelli nazionali. Peraltro non sono solo a pensarla così: fra gli altri, m’è parso di capire, anche il dottor Hans Tietmayer, ex presidente della Bundesbank, la pensa allo stesso modo. Così mi è parso di capire. Anzi, ho capito bene.
La globalizzazione intacca, quindi, profondamente la coesione delle comunità: i mercati globali, non meno delle dimensioni di massa assunte da consumo, da comunicazioni e dal turismo, provvedono a diffondere e far conoscere nel mondo i prodotti standardizzati di una stessa cultura di massa, prevalentemente nordamericana: tutto uguale, dai film al vestiario, dalla musica alla parlata, quell’incredibile pseudo-inglese che è divenuto il dialetto globale, tutto un insieme che introduce l’imporsi di un’unificante “cultura” mercificata. Oltre a questo, anche il cibo: mangiare secondo lo stile Mc Donald rischia di diventare uno standard, quindi, di fatto, una dipendenza, come dipendenza potrà parimenti diventare l’uso di cibi transgenici, opportunamente trattati e modificati, i quali, attraverso la globalizzazione gestita da grandi concentrazioni produttive del settore, diverranno dominanti, distruggendo la produzione agricola e gli allevamenti animali tradizionali, e forse non soltanto…Potranno anche crearsi volute e mirate dipendenze fisiche e psichiche…
Peraltro, e non è cosa da poco, potrebbe parimenti essere risolto, facendo uso delle nuove tecniche produttive, il problema dell’approvvigionamento alimentare per una popolazione umana spaventosamente cresciuta nell’ultimo secolo.
Non basta: l’acquisita mobilità delle risorse finanziarie moltiplica la loro “falsa” possibilità di essere contemporaneamente presenti su mercati diversi, drogando i mercati stessi. Se penso alla valutazione raggiunta dai cosiddetti titoli tecnologici, mi spavento, ben conoscendo l’effettiva capitalizzazione dei gruppi che li emettono: personalmente, allo stato attuale, li considero nient’altro che carta, che vale finché tutti la comprano, ma che carta rimane; e non escludo affatto che, attraverso di essi, si inneschi una drammatica crisi economica mondiale ben peggiore, e di molto, di quella di Wall Street del 1929. Anzi, una serie di periodiche crisi economiche mondiali aventi la medesima fonte causale!
6. Globalizzazione ed universalizzazione (o mondializzazione)
Insomma, ci sono possibilità di grandi vantaggi per l’intera umanità e di grandissimi rischi, si può compiere un gigantesco passo in avanti e nello stesso tempo crollare nel baratro: davanti a un fenomeno complessivo di tal portata, io credo che a nulla serva chiudersi a riccio così come auspicare l’avvento di un governo mondiale, realizzazione pratica di quella «nuova etica globale» propugnata da Hans Kung, che finisce col confondere la globalizzazione, fatto eminentemente economico e tecnologico, con l’universalizzazione, il cosiddetto mondialismo, cioè l’uniforme orientamento di valori sotto la guida di un pensiero tecnologico, radice, secondo me, della peggior dittatura immaginabile, anche perché congruo agli interessi dei soggetti monopolizzatori di cui sopra, che sono incapaci di costruire un’etica globale, proprio per il fatto che sono impersonali e, quindi, costitutivamente avulsi da influssi di tipo morale (sono generatori di indifferenza, che è il portato della cultura tecnologica, da distinguersi da quella scientifica).
Sono, però, bravissimi ad appropriarsene (e in Italia coloro che guardano parecchio “a sinistra”, i nostalgici del comunismo e delle burocrazie che tutto vogliono vigilare e dirigere, mascherandosi dietro antiquate strutture di welfare state, sono fra i più grandi tifosi di tale oppressiva soluzione, nel loro caso applicabile ai para-mafiosi partiti cui appartengono – e vedremo anche perché -, soluzione la quale è inoltre nettamente anticristiana – e qui mi chiedo, per inciso, come possa chi si dice «cristianamente ispirato» far parte di questa schiera, salvo che di «ispirazione cristiana» non si tratti e forse da lunghissimo tempo non si sia trattato!). Scusatemi per gli incisi che significano arrabbiatura. Ce l’ho, nella fattispecie, colla sinistra perché depositaria di un grande patrimonio morale e sociale: quello della liberazione dal servaggio padronale di operai e lavoratori della terra, colla successiva costituzione di splendide strutture di solidarietà fra questi stessi soggetti. Il pensiero marxiano, però, non è stato applicato per quanto in esso c’era di valido e criticato per il molto di errato o contraffatto che presenta. Ề stato preso ad approssimativo pretesto per creare una serie di spaventose dittature, alle quali viene banalmente accumunato e sovrapposto, senza teorica né pratica distinzione, facendo valere per quelle operazioni totalitarie, come generica e incongruente scusante “socialmente utile”, l’esistenza di quelle magnifiche strutture che, però, col pensiero marxiano e coi totalitarismi comunisti non hanno nulla a che vedere. Il burocratismo comunista, prendete la mia come un’opinione, è per certi aspetti molto peggio della violenza nazista: questa si sa cos’è, la si può combattere e vincere in ogni momento, non toglie la speranza; quello è un indistinto muro di gomma che obbliga alla rassegnazione dello schiavo.
Per chiarirvi e approfondire la distinzione concettuale fra globalizzazione e mondializzazione di cui poco sopra trattavo, secondo me cruciale, mi soffermo ancora un poco: la globalizzazione di oggi si può paragonare all’avvenuta accelerazione e modificazione del sistema dei trasporti allorché fu creato il sistema ferroviario, dopo l’invenzione della locomotiva, quindi, un fatto tecnologico i cui effetti positivi o negativi furono dovuti al suo utilizzo, alla preparazione culturale di chi ne usufruiva. L’universalizzazione o mondializzazione è appunto uno dei possibili utilizzi della globalizzazione, o, meglio, uno dei possibili usi di questo nuovo metodo di comunicazioni e scambi, ma determinato in chiave di omogeneizzazione sia economica che culturale a livello generale: qualcosa che per me è francamente mostruoso, che costituisce la realizzazione pratica del tragico e fallito sogno del comunismo reale, un uso che realizza nei fatti la previsione teorica (profezia) marxiana, secondo la quale la possibilità dell’avvento del comunismo, quale superamento del capitalismo, presuppone l’apporto e, poi, l’appropriazione di quelle strutture che soltanto il capitalismo è in grado di dare.
Immaginatevi cosa possa significare “omogeneizzare” le singole culture europee, con le loro ricche e affascinanti differenze, secondo un dettato che parte dall’alto, imponendo una sorta di colonialismo culturale, visto come pendant di una “inevitabile” (ricorda tanto «i fulgidi destini della Patria» oppure «il sol dell’avvenire» di fascista e comunista memoria) mondializzazione economica! Pensate a quale miseranda fine sarebbe destinata la nostra etica delle relazioni, che verrebbero (e già vengono) distrutte da regole preordinate da non si sa chi, regole, inoltre, che determinerebbero di fatto una nuova etica riferibile soltanto all’avere.
È il passo propedeutico al comunismo, quale neppure i comunisti più irriducibili avrebbero mai pensato di avere a portata di mano. Io credo che i comunisti convinti, “in buona fede” per così dire, alla Fausto Bertinotti, vedano in questo periodo storico, seppur attraverso una certa qual confusione teorica, il vero momento per dare luogo alla Rivoluzione comunista, intempestivamente anticipata e, quindi, impedita dalla Rivoluzione d’Ottobre russa, il cui fallimento pratico aprirebbe ora la porta alla Rivoluzione vera. Sono convinto che in questo specifico senso vada letto il continuo riferimento da parte di Bertinotti, che ammette e sconfessa i crimini staliniani, stalinisti e leninisti, alla necessità di ripartire dal marx-engeliano Manifesto dei Comunisti, da una sua nuova e diversa interpretazione, della quale però nulla dice, tanto per confermare l’impressione di assoluta confusione teoretico-interpretativa. E in tali casi, l’esperienza dovrebbe averci ormai insegnato a essere diffidenti, molto diffidenti.
Ecco nel contempo spiegato, almeno parzialmente, il perché di tanto entusiastica partecipazione da parte delle sinistre all’idea mondialistica, da realizzarsi attraverso la globalizzazione: per loro è l’alba dell’avvento del Comunismo. Colla sola differenza, non da poco, che un tempo studiosi e pensatori per approntare un simile progetto c’erano, e in qualche modo, pur terribile, lo hanno realizzato, mentre oggi ci sono soltanto arrivisti che pensano esclusivamente ad arricchirsi con immeritate prebende e, per il resto, brancolano ridicolmente nel buio.
Provate adesso a ripensare, in questa ottica, al possibile significato della pur continua proclamazione, astratta, dei diritti umani, che costituisce riconoscimento meramente formale della persona, senza che vi sia una ricerca della e sulla persona, quale essa è, per noi Cristiani, figlia del Padre che sta nei Cieli, dotata di spirito di avventura, gravata sì dall’angoscia ma piena di inesauribile creatività e fantasia, a lode del suo Creatore.
Provate a ripensarla nell’ottica di questo uso della globalizzazione, secondo me da respingere e che ho appena cercato di illustrarVi.
Proseguendo nella disamina, osservate anche che, corrispondentemente a quanto generato dalla teoria comunista, e oggi frazionato, frammentato e disperso per ciascuna persona, come un “a sé”, un singolo mondo a sé, (come meco concordava recentemente il professor Gaspare Mura, docente di filosofia presso l’Università Lateranense, che credo qualcuno di voi qui presente abbia avuto occasione di incontrare con me nella circostanza cui alludo), ricompare oggi il puzzo della figura dell’uomo quale artefice della propria natura, figura prometeica, che pretende di fare a meno della natura stessa dell’uomo, oltre che di Dio, che pretende di fare completamente a meno del progetto divino sulla Storia.
Vedete come tutto si ricompone? Capite, ora, il senso di quella lunga premessa, di quell’analisi sullo stato della nostra amata Chiesa cattolica, quando poco fa mi guardavate perplessi, sotto sotto pensando che fossi nient’altro che un bacchettone, seppur acculturato, che andava tranquillamente fuori dal seminato senza neppure accorgersene? Ah, questi Cattolici!
7. Necessità di nuove istituzioni… e di una nuova etica
Occorre darsi da fare, e in fretta, e parecchio, non vi è dubbio, ricercare soprattutto in direzione di politiche non centralizzate né gerarchizzate ma organizzate come interazione a più livelli, che non chiedano ai cittadini di rinunciare a forme di vita e a valori materiali e spirituali specifici, e tutto ciò sarà un bene, sarà una scossa al torpore attuale dei nostri popoli (vedere al proposito l’opinione di Jürgen Habermas – Die Postnationale Konstellation e Der Europäische Nationalstaat unter dem Druck der Globalisierung, testi che credo siano stati, almeno in parte, tradotti anche in Italia – La costellazione postnazionale, o un titolo simile), i quali dovranno anche imparare a tenere nello stesso tempo l’occhio puntato sui comuni destini di tutti gli altri popoli (Teilhard de Chardin): occorre cioè ridare slancio alla nostra cultura politica, teorizzare e applicare nuove strategie politiche, nuove istituzioni in cui il cittadino e le famiglie abbiano concrete possibilità di controllo, ma anche effettive responsabilità. I partiti, soprattutto, non sono più sufficienti, specie quando, come avviene in Italia, occupano ogni minimo spazio politico, tutti, tutti indistintamente, gestendolo con stile para-mafioso e per corrispondenti finalità prioritarie.
Peraltro, più in generale, da sempre anche il solo affacciarsi della possibilità di poteri egemonici ha dato luogo all’elaborazione di teorie e alla messa in atto di comportamenti che, sostanzialmente a mezzo di una loro specifica e nuova articolazione (a volte frammentazione, e perciò spesso destinata al fallimento), rendessero, se non impossibile, quanto meno assai meno duro l’impatto coi poteri emergenti, facendo sopravvivere al meglio le utilità del passato e aprendo così la via a nuove situazioni e sistemazioni, con procedimento analogo a quello cosiddetto della “falsificazione”, elaborato e descritto, per le attività conoscitive, dal professor Karl Popper, di venerata memoria, almeno da parte mia per ragioni strettamente familiari.
Per quanto riguarda la situazione europea, lo stesso Ernst Nolte, “conservatore” oltre ogni dire, secondo l’etichetta attribuitagli dal mondo culturale cosiddetto “progressista”, non crede a un’Europa quale Stato Federale, concepito secondo vecchi criteri, con sede centrale a Bruxelles e l’Italia, la Francia, la Germania quali province, apparendo più congrua una sistemazione regionale allargata (tipo l’associazione Friuli-Slovenia-Carinzia, o tipo la cosiddetta Padania, per capirci), all’interno di un’Europa organizzata in modo ragionevole.
L’urgenza del problema ha un riscontro immediato, palpabile: vi siete necessariamente accorti che sono nati e continuano a nascere nuovi centri di responsabilità politico-istituzionali totalmente disancorati dai vigenti soggetti politici istituzionali, quali la Organizzazione Mondiale per il Commercio piuttosto che la Nato, la quale conduce addirittura guerre in proprio dietro assai debole “copertura” giuridica, soggetti sostanzialmente impersonali, analogamente a quanto si osserverà di seguito circa le cosiddette “compagnie multinazionali”, privi di investitura popolare, anche indiretta, espressioni di una concezione verticistica del potere politico che conduce a un’unificazione politica, oggi sotto l’egemonia americana, cioè a un “impero”.
L’Unione Europea oggi traballa fra una opzione abbastanza simile, che condurrebbe verso uno Stato-nazione, tecnicisticamente costruito, uno Stato continentale che passerebbe sopra le identità dei popoli europei, e una nuova forma sintetica, pluridimensionale e proteiforme, quale complesso eccezionalmente forte e flessibile di relazioni politiche, sociali e istituzionali in grado di assorbire dentro di sé il globale e il locale e, quindi, in grado di contrastare le tentazioni imperialistiche che oggi vengono d’oltreoceano. Pare inutile sottolineare che io sono, e noi siamo, intendo i responsabili dell’Alta Istituzione che qui rappresento, per questa seconda soluzione.
Ricordo, per inciso, che simile operazione di sintesi fa già parte della nostra storia umanistico-cristiana, e mi richiamo a un’epoca abbastanza remota e stoltamente vituperata, al Medioevo, voglio significare, tanto ignorato ma tanto attuale per molti e molteplici suoi aspetti, epoca che va profondamente ripensata, in cui il globale dei commerci e il locale dei municipi dava luogo a un virtuoso insieme (vi suggerisco, al riguardo, la lettura di alcuni dei numerosi testi del professor Jacques Le Goff, in particolare L’uomo medievale).
Se questa esigenza di un nuovo assetto istituzionale, che parte dalle piccole realtà per giungere coerentemente a quelle più grandi, apparirebbe essere di per sé evidente, quasi nei fatti, essa viene, invece, discussa un po’ dovunque e spesso con argomentazioni prive di sostanza e parole dette a vanvera.
Ma un’altra esigenza viene sottovalutata, vista come meno urgente e, quindi, per quanto incredibile, meno studiata: la sottostante e logicamente precedente necessità di costruire rapporti etici di nuovo tipo, a ogni livello intersoggettivo ed intrasoggettivo. La necessità di una nuova civiltà, in sostanza.
Non prendere in considerazione il fatto che le potenzialità di sviluppo dei diversi gruppi sociali consentite dalle nuove tecnologie, potenzialità delle quali le istituzioni dovrebbero essere utile strumento, debbono essere pensate come valorizzazione, cura e garanzia di alcune libertà fondamentali, rispetto alle quali esse pure debbono essere strumento, significa aggiungere a storico errore, quello delle istituzioni scambiate come fine buono in sé, altro insopportabile errore, quello di scambiare a loro volta i beni e servizi economici potenziati dalle tecnologie come finalità cui quelle libertà fondamentali verrebbero subordinate: credo che sarebbe la fine della nostra civiltà.
Siamo ad una svolta, dunque, e dobbiamo esserne consapevoli: l’economia deve essere disegnata per gli esseri umani, e non il contrario, e per far ciò io credo sia in primo luogo necessario ampliare il più possibile il dibattito pubblico circa i fini e i mezzi delle istituzioni, nazionali o internazionali che siano, studiarne i modelli e le teorie per valutarne l’impatto sulle nostre vite, i rischi e le opportunità.
Ma per fare ciò occorre riacquisire l’abilità di saper prendere decisioni, attivamente partecipandovi, gravandosi del peso della corresponsabilità etica che sta su ciascuno di noi e sui nostri comportamenti, senza delegare il tutto a incerte rappresentanze politiche che, di là dai loro ormai evidenti limiti, non possono avere comunque né la capacità né il potere di indirizzare o imporre etiche di riferimento.
E qui torniamo, perché rispetto a quanto detto in precedenza si tratta di un ritorno, o di uno sviluppo, se si vuole, al perno dell’argomentazione: come si può agire in tale direzione se non si hanno in proprio, personalmente, come famiglie, come gruppi, come comunità, principi e valori condivisi, difesi e da difendere? Il Cristianesimo, ancora una volta, può dare moltissimo, sempre che siamo capaci di riappropriarci del suo senso più profondo, vera architrave su cui si è fondata e costruita la nostra civiltà occidentale.
8. I fattori di squilibrio nello sfruttamento della globalizzazione.
Siamo, dunque, a un passo decisivo poiché siamo davanti a un fatto enorme, quello della globalizzazione, quel fatto che ha reso la tecnologia un’autonoma categoria dell’essere, separando la scienza dal pensiero, tradizionalmente inteso, e facendola diventare pensiero tecnologico, pensiero a sé.
È però pur sempre un fatto, ribadisco, col quale bisogna fare i conti, di cui va fatta l’analisi delle possibili diverse utilizzazioni, che però fatto rimane, in sé non irreversibilmente incontrollabile.
Osservo innanzitutto che se tutti quanti, rispetto a esso, partissimo sullo stesso piano e, in assenza di altre regole, valessero soltanto quelle del mercato globalizzato in quanto tale, ci sarebbe poco da dire d’altro, sarebbe stato in parte privo di significato il precedente mio lungo argomentare e non resterebbe altro da fare che rimboccarsi le maniche nel senso che ho sopra specificato.
Ma così non è: come ho più volte, direttamente e indirettamente, spiegato in precedenza vi sono attori che “giocano” la loro partita ad armi impari, vale a dire le strutture extra-sovra-multinazionali, quelle già esistenti e quelle in via di costituzione, e la potenza politica attualmente imperante, gli Stati Uniti d’America, le rispettive posizioni delle quali credo vadano comunque tenute distinte, anche se i loro interessi possono essere spesso convergenti e i comportamenti coerenti.
9. Le cosiddette multinazionali.
Le cosiddette multinazionali tendono essenzialmente a massimizzare il profitto nel più breve arco di tempo possibile, e l’assenza di regole è tanta manna per loro, come si è sopra evidenziato: l’inesistenza di strutture sociali e politiche adeguate, specie se democratiche (quelle esistenti, nazionali, sono messe in crisi dalla globalizzazione, come abbiamo visto, oltre che, al loro interno, dall’arbitrio dei partiti), ricrea nel campo economico la situazione fotografata dall’antico detto divide et impera, in questo caso moltiplicata all’ennesima potenza, in quanto la divisione è addirittura individualizzata, poiché le strutture sociali, financo le più piccole e fondamentali, come la famiglia, vivono momenti assurdamente difficili e sono messe in ginocchio.
Il perpetuare questo stato di cose, e anzi, il cronicizzarlo, corrisponde all’interesse di questi enormi complessi economici sostanzialmente impersonali, quindi, deresponsabilizzati (osservo – per inciso – che Microsoft è Bill Gates, ed è stata colpita), queste concentrazioni finanziarie, queste “fondazioni” a scopi puramente finanziari e di vorace profitto che, lo ripeto, tendono a massimizzare il profitto attimo per attimo, senza curarsi del futuro, se non del proprio, e a lungo termine nemmeno quello: sono l’emblema della versione folle del capitalismo, che disegna un sistema basato sullo spreco, quindi destinato, prima o poi ma comunque, a un tragico crollo. È la globalizzazione del capitalismo, anzi, forse con maggior precisione, del trustismo e del monopolismo.
Mi si potrà chiedere a questo punto in quale recondito angolo abbia potuto scovare un rapporto relazionale fra questi mostri e la matrice sostanzialmente cristiana del mondo occidentale: senza farne la storia, osservo che il capitalismo, come è a tutti noto, quale metodo economico più razionale (Max Weber e Ludwig von Mises), efficiente, dinamico ed espansivo di ogni altro conosciuto, nasce e si sviluppa nelle società ad impronta cristiana (Venezia dapprima, poi Anversa, Genova, Amsterdam, l’Inghilterra e infine gli Stati uniti d’America), e di per sé, a mio avviso, non è incompatibile coi principi e valori del Cristianesimo (cfr. ad esempio Wilhelm Roepke, lo stesso Friedrich August von Hayek, Michael Nowak).
Dipende, come ben evidenzia l’Enciclica Centesimus Annus, dall’applicazione che se ne fa, non dovendosi mai dimenticare che, comunque, a esso è intimamente legato il concetto stesso di proprietà privata. Nel caso in esame, quello delle compagnie cosiddette sovra-extra-multinazionali, siamo di fronte, per certi aspetti, a mio avviso, a una degenerazione del metodo, a una vera e propria devianza di un’idea corretta del capitalismo, data, credo, dalla sua ormai prevalente finanziarizzazione. Ciò non toglie che, in questa patologia, il fondamento logico, la matrice, seppur modificata e perniciosa, rimanga quella indicata, come pure vedremo in seguito, e curabile e vincibile, secondo me, all’interno e con i metodi di quel nucleo originario, prima che sia troppo tardi, prima che essa si autonomizzi completamente. Si tratta, a mio avviso, di una variante che nasce da una visione fondamentalista (o massimalista?) del mercato, che tutto vuol basare su di esso e in esso tutto assorbire, facendo venir meno la caratteristica e le conseguenze prime del mercato stesso: la libertà politica.
Si intravede l’uccisione del genitore di freudiana memoria…
L’imporsi di una simile visione porterebbe alla desertificazione della nostra civiltà, che è al fondo cristiana, e, guardate, prendetela per quello che vale, ma non sottovalutatela, ho l’impressione che l’Islàm, questa religione di legge, come vedremo, venuta dal deserto, sia dal punto di vista della forma religiosa, meglio, della tipologia religiosa, maggiormente congrua a quella visione e a quegli interessi rispetto a quella cristiana, che al riguardo si pone domande di senso. Ricordiamoci, infatti, che i musulmani si definiscono «servi di Dio», come ci indica la stessa voce muslìm, che significa oblato, sottomesso, come accenneremo anche in seguito, mentre i Cristiani vedono nell’uomo, in ciascun uomo, un figlio di Dio, e su tale posizione rispetto alla divinità fondano la loro stessa concezione di libertà. Il musulmano, oggi, teme quell’insieme globalizzato e inglobante, ne ha paura, ma non si pone domande di senso: passata la paura… staremo a vedere.
Non per nulla la penetrazione dei mercati – vedi il caso delle Filippine e quello più recente di Timor Est – da parte delle compagnie cosiddette multinazionali viene regolarmente preceduta da una ben orchestrata infiltrazione (e rispettivo congruo finanziamento) delle sette millenariste, affini, per così dire, al “Cristianesimo” – ma i termini sono ovviamente assurdi e servono soltanto per far comprendere meglio il fenomeno cui intendo riferirmi – le quali, disgregando la società, spianano loro il terreno, tattica che non viene posta in essere per i paesi islamici, culturalmente meno attrezzati per fronteggiare il fenomeno.
Torniamo allo “mio” svolgimento del tema: nella spasmodica ricerca del massimo profitto, cui sopra accennavo, da parte delle cosiddette compagnie multinazionali, ricerca che passa attraverso la monopolizzazione e standardizzazione dei mercati, congrua al fenomeno della globalizzazione, come abbiamo visto, sta anche, e con ruolo rilevante, la ricerca del minor costo di produzione possibile, quindi, lo sfruttamento senza scrupolo delle cosiddette “risorse umane” (che brutta espressione!): e chi costa meno dello schiavo?
Una nuova tratta degli schiavi, sotto nuove forme, è quanto di “meglio” possano auspicarsi simili colossi economici, e, guarda caso, è proprio ciò che sta avvenendo: masse di disperati si aggirano per il pianeta alla ricerca di un tozzo di pane, fuggendo da guerre e oppressioni, disposte a tutto pur di uscire dal degrado senza speranza in cui sono costrette. Sono la “merce” ideale per gli interessi di quelle mostruose e multiformi strutture. Altre masse, in regimi totalitari (Cina) o a bassissimo tenore di vita (India) svolgono lavori massacranti per quelle stesse strutture, per le quali vige l’antica massima “pecunia non olet” (e nemmeno puzzano i regimi di riferimento).
E, credete pure, se vi può essere di consolazione, ma non credo, che, alla fin fine, un tale indirizzo non penso che risparmierà, nei suoi effetti negativi, neppure i cittadini statunitensi, perché la «sacra auri fames» (Virgilio) non guarda in faccia a nessuno. Vedrete che, prima o poi, fra non so quanto tempo, se pur, malauguratamente, fossero stati ormai schiacciati economicamente i nostri popoli, saranno gli stessi statunitensi, forse a causa di una drastica riduzione del loro tenore di vita e un conseguente imbarbarimento, a ribellarsi,… e l’esempio di Seattle ne è già un imprevisto potente monito.
Ma prima della loro ribellione potrebbe anche esplodere tragicamente il mostro di un terrorismo parimenti globalizzato.
10. Gli Stati Uniti d’America come istituzione.
L’altro attore, come si è detto, è rappresentato dagli Stati Uniti d’America, oggi unica potenza politica mondiale, nella persona del suo attuale Presidente Bill Clinton, cui, pur su di un piano squisitamente morale, si contrappone la sola figura del Pontefice.
Abbiamo visto come l’Europa occidentale, al suo primo pur flebile cenno manifestante volontà di vera aggregazione interna, ovviamente ricadente anche sui vicini paesi europei già appartenenti al cessato impero comunista, sia stata colpita da una gragnola di colpi di ogni genere ed in ogni direzione dal suo padrone, tale da decenni, che pur l’aveva salvata dal nazismo prima e dal comunismo poi: è stata trattata né più né meno che il Sudamerica, colonia da sempre degli Stati Uniti, i quali hanno chiaramente fatto capire che noi europei apparteniamo alla loro cosiddetta “sfera d’influenza”, e che essi non tollerano il sorgere di strutture popolari autonome e, soprattutto, di aggregazioni di popoli che possano ergersi a contraltare al loro immane potere.
Guardate che dico questo senza l’astio di inutili ideologismi, senza essere un antiamericano alla moda (sono, in positivo, tutt’altro), ma come semplice, anche se amara, constatazione di una realtà attuale.
Gli Stati Uniti sono il luogo di nascita e la patria di quei colossi finanziari dei quali abbiamo sopra parlato, sul loro territorio sono cresciuti e si sono sviluppati fino alla loro attuale inaudita potenza, con essi le strutture statali nordamericane hanno convissuto per oltre un secolo e mezzo (Rivoluzione industriale), imparando a sfruttarli e a servirsene, da essi essendo sì condizionate ma ad essi finendo anche per essere sostanzialmente omogenee. Non solo: la tecnologia di cui si nutre il fenomeno della globalizzazione è prodotto di quelle stesse strutture statuali, in esse è nata e si è perfezionata, di essa conoscono i segreti. Basti pensare a Echelon, l’orecchio degli States sul mondo, questa struttura tecnologica che globalmente può controllare tutte le comunicazioni, anche le singole conversazioni private, mie e vostre, nata anch’essa per scopi militari e tutt’oggi gestita dai Servizi segreti statunitensi, mediante la quale viene tranquillamente esercitato anche lo spionaggio industriale a favore del sistema produttivo statunitense. Da un simile enorme fatto, senza bisogno di ulteriori esemplificazioni, risulta e risalta l’ampiezza e la qualità della commistione e reciproca influenza, non svantaggiosa, però, fra il sistema economico, e in particolare i suoi potentati, e le strutture pubbliche nordamericane. Senza questa collusione di intenti non si potrebbe avere quella globalizzazione del capitalismo o trustismo o monopolismo cui sopra accennavo.
Non così è per le strutture sociali, nazionali e sopranazionali europee, le quali, nella loro debolezza, anche sotto il profilo della legittimazione democratica, tendono a subire direttamente anche quei gruppi imprenditorial-finanziari che si generano sul loro stesso territorio e che usano quelle tecnologie: non sono in grado di opporre a essi resistenza alcuna; figuriamoci ai colossi d’Oltreatlantico!
Gli Stati Uniti d’America, inoltre, ben conoscono la schiavitù: a essa gli Stati del Nord, che non vi erano direttamente interessati, hanno opposto una grande e ferma resistenza di principio, cui l’intera umanità deve essere grata, ma l’omicidio del dottor Martin Luther King negli anni Sessanta del secolo scorso, l’ignobile attuale sfruttamento di masse di portoricani che si introducono nel territorio degli States, la sussistenza sul loro territorio e nella loro cultura di istituzioni universitarie che si ispirano a concezioni di discriminazione razziale e religiosa, come la Bob Jones University, nel South Carolina (il cui insegnamento si fonda palesemente, senza alcun infingimento, sulla discriminazione razziale verso i centro-sudamericani in genere, ed i portoricani in particolare, e inoltre sull’avversione alla religione cattolica, cui appartengono in gran parte quegli emigrati – altro che l’avvocato austriaco Jörg Haider), indicano quanto lungo deve essere ancora il percorso per il superamento di tale concezione nella sua realtà pratica. E pensate che giusto questa settimana il governatore del Texas, George W. Bush jr, alla ricerca di voti per essere eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, si è recato in visita, in pompa magna, proprio in quell’Università; questo per dire, da un lato, che quell’istituzione non è una robetta da poco e, dall’altro, quali sono nella sostanza le tendenze del maggior aspirante alla Casa Bianca di Washington.
Tutti quelli sopraelencati sono elementi di congruità delle strutture nordamericane con gli scopi delle cosiddette multinazionali, e se la globalizzazione, ove gestita da queste ultime, diviene elemento devastante per le strutture statali attuali degli altri popoli, non lo è affatto per quelle, che, anzi, possono servirsene utilmente per i loro fini di imperio, avendo potuto constatare che, proprio perché la globalizzazione affievolisce i confini, o li annulla, come abbiamo detto, la guerra può diventare l’economia condotta con altri mezzi.
E anche qui, il richiamo dei fatti di Seattle dovrebbe suonare come forte campanello di allarme per i governanti di un paese, come gli Stati Uniti, che si fonda su indubitabili principi democratici.
Così, nel modo sopra descritto, la globalizzazione, da fatto meramente economico e tecnologico, quale è, dispiegante enormi potenzialità positive per l’intera umanità, diventa la componente essenziale di un pericolo grave per i popoli, occidentali e non, salvo, forse, quelli statunitensi, la struttura fattuale portante di un male come tale già profeticamente prefigurato nell’Enciclica Centesimus Annus, direttamente generato dalla bestiale ingordigia e avidità di quello stesso uomo che quelle meravigliose potenzialità ha scoperto.
11. Le potenzialità morali del mondo cristiano.
Unico inciampo resta la possibilità attuale, generata dall’azione del Pontefice Cattolico, della costituzione di una potenza morale, data dall’unione di tutti i Cristiani, che sappia opporsi a questo disegno disgregatore e opprimente insieme, a contrastare la quale quelle strutture, proprio per la loro impostazione e vocazione, in parte patologicamente degenerate, come abbiamo visto, non sono attrezzate: principi morali forti, fondati su di un Credo diretto alla liberazione di ogni individuo da qualsivoglia oppressione, com’è quello cristiano, sono quanto di più temibile possano figurarsi, poiché sono l’antidoto della disfunzione, sono il richiamo alle condizioni base da cui si sono modificate e sviluppate, anche sullo stesso territorio degli Stati Uniti d’America, la cui popolazione è largamente legata al Credo cristiano. E il Personaggio che guida questo controdisegno non è uomo da poco: ha già fatto saltare in aria l’impero comunista sovietico!
Che nel concreto, poi, una simile possibilità si realizzi, francamente ne dubito, o, meglio, non sono ottimista, (anche se, infine, «La c’è la Provvidenza», per dirla con Manzoni – I promessi sposi), per il fatto che il mondo cristiano è assai disgregato e debole e i gruppi cristiani statunitensi, per lo più battisti e pentecostali, composti in maggioranza dai discendenti degli schiavi importati dall’Africa, mi danno l’impressione di somigliare più a sette, con propri riti particolari, che talvolta ricordano pratiche tribali, che a vere e proprie Chiese cristiane, e sono per di più imbevuti di spirito nazionalistico (spesso, alla fine delle cerimonie, si canta l’inno USA), essendo pertanto ben difficile che, con ciò tutto, possano accettare di unirsi in un’azione unitaria di tal peso e portata. Il disegno, forse, potrà realizzarsi a livello di vertici, ma immediatamente non credo che scenderà al livello più basso, che è quello più importante, dove l’opera unificatrice richiederà, a mio avviso, sempre che avvenga, tempi lunghissimi.
Ciò non toglie che la creazione di una forte coesione morale, che io non vedo se non cristiana, sia la sola speranza, l’unico mezzo ipotizzabile, per quanto sono in grado di vedere e capire, atto a far sì che i progressi tecnologici di cui sopra servano al miglioramento della persona umana e non al suo detrimento, in esso compreso il suo asservimento e la disgregazione delle sue relazioni sociali.
Vorrei richiamarvi alla mente un film che forse tutti voi, con i vostri figli, avete visto, Guerre stellari. Personalmente l’ho sempre ritenuto un’opera che, di là dagli effetti spettacolari e dalle tecnologie utilizzate, molto appariscenti, in un’ottima ambientazione “politica”, prevedeva il successivo evolversi della situazione internazionale in senso oppressivamente globalizzato e lanciava già allora un messaggio, peraltro più volte verificato nella Storia: giuste convinzioni, di fede e morali, pur condivise da pochi, possono sconfiggere qualunque impersonale e amorale impero, anche se esso sia supportato dalle tecnologie più avanzate. E quale era l’Impero descritto nella finzione cinematografica! Non sorridete dinanzi a un simile paragone, perché guardate che nella cultura statunitense quella cinematografica è l’arte per eccellenza di quel grande popolo, e il tema v’è ricorrente, significando che è inculcato nel suo animo: dai film di tipo western a quelli d’inchiesta politica o malavitosa, fino ai telefilm dei vari incredibili agenti di polizia, è un continuo riproporsi dello stesso tema, a sottolineare la profondità dell’impronta moralistica, direi puritana, che persiste nell’animo statunitense, e, quindi, la tuttora reattiva sensibilità al tema della contrapposizione fra le utilità materiali e i principi, valori e senso morali.
Ma, senza lanciarci nel mondo della fantasia, ricordiamo la crisi filosofica e religiosa verificatasi nel III secolo dopo Cristo nell’Impero Romano, la potenza universale di quell’epoca, determinata essenzialmente dall’eccessivo accentramento del potere nelle mani dell’imperatore e del suo esercito e nella conseguente esclusione del cittadino, del civis romanus, dalla partecipazione alla vita pubblica. Ciò diede luogo a sfiducia nei confronti dello Stato e delle istituzioni, facendo emergere quelle nuove esigenze a livello filosofico e religioso che portarono alla sostituzione del rapporto utilitaristico con le divinità romane, divenuto insufficiente, dapprima con riti orientali e infine col Cristianesimo e il suo rigore morale.
E tutto questo è la Storia che ce lo racconta: speranza e impegno, dunque, anche senza nasconderci le difficoltà.
12. L’Islàm, breve analisi della Rivelazione a Maometto.
Se poi guardiamo proprio alla storia dell’Islàm, del quale qui di seguito tratteremo, vediamo che il fenomeno si ripete: riporto alla vostra memoria il ricordo di quanto avvenne alla fine del VI secolo dopo Cristo a La Mecca, là dove i Qurayshiti dell’interno, vale a dire i componenti della omonima tribù beduina che abitavano nel centro della città, vicino al santuario della Kaaba, dove è custodita la Pietra nera, avevano costituito un’aristocrazia d’affaristi, per i quali contavano solo i dinari d’oro e le dracme d’argento, che sfruttavano e monopolizzavano il traffico religioso e commerciale, fin verso la Siria e lo Yemen, e non rispettavano più la legge del deserto, il codice d’onore beduino, pur divenuto raffinatamente cittadino, mentre che nella periferia della città si accumulava una massa sempre maggiore di miserabili. Uno sconvolgimento gravissimo per una società tribale, chiusa, qualcosa di simile, limitato al territorio arabo ma di forma, secondo me, assai più grave, al sopra descritto possibile prossimo-futuro utilizzo della globalizzazione dei mercati: ed ecco aperta la strada per l’uomo geniale, appartenente alla casta dominante, seppur povero, che soddisferà le attese di molti per un cambiamento radicale, che saprà rispondere alle attese di un popolo sofferente, Muhammad, figlio di Abd-Allah, a sua volta figlio di Abd al-Muttalib, figlio di Hashim, della tribù dei Qurayshiti, per noi, Maometto, il Profeta, un uomo, fallibile come tutti gli uomini, come egli stesso conferma nel Corano e col suo comportamento (cfr. l’episodio dei sandali riferito in un hadit di Abu Hhurayrah), anche nell’ambito specifico della sua missione (cfr. la sorte destinata ai prigionieri di Badr), che riceve sul monte Hirà la Rivelazione da Dio attraverso un «compagno sommo», poi identificato con l’Arcangelo Gabriele, personaggio che in un primo tempo lo stesso Maometto scambia per un demone, venendo per ciò colto da vere e proprie crisi epilettiche.
Voglio farvi osservare subito qui, e non è osservazione secondaria, la sostanziale differenza che intercorre fra l’Annunciazione, quale è descritta nei Vangeli, e questa “annunciazione”.
Là Maria, giovane vergine, rimane turbata all’ingresso nella sua dimora ed al saluto dell’angelo, si chiede il significato della frase di saluto («Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te», Luca 1,28), accetta la comunicazione dell’angelo, Gabriele, chiede spiegazioni, ovvie, circa la sua possibilità pratica di diventare madre («non conosco uomo», ibidem), infine, riconoscendo l’onnipotenza dell’Altissimo, risponde: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (ibidem 1,38), il tutto in un’atmosfera di grande serenità e fede, di consapevole adesione al disegno divino, senza dubbi, nonostante ciò comportasse per Lei gravissime ripercussioni sul piano personale e sociale (ricordiamoci che l’unica citazione del Talmud riguardante Gesù parla di Lui, con sciovinismo ante litteram, come del «figlio di Panthera», nome non si sa se riferito a un soldato romano o direttamente alla di Lui madre, descritta come donna di facili costumi, e, per richiamo, alla lascivia dell’omonimo animale).
Peraltro, se andiamo ad esaminare le altre manifestazioni del Signore Iddio, ad esempio, nella Torah, a Mosè, sul Monte Sinai, per citarne una nota a tutti, per quanto l’incontro avvenga in uno scenario di tuoni, fulmini ed emanazioni fumogene, atto a impressionare e intimorire il popolo eletto «dalla dura cervice» (ma anche a struttura federale fra le dodici tribù, si noti), non vi sono incertezze e timori, salvo quello sacralmente dovuto alla Divinità, da parte di Mosè, il quale riceve le Tavole della Legge, i Comandamenti, senza neppur allontanarsi dal luogo, perfettamente conscio di essere al cospetto del suo Signore e del compito affidatogli.
Nel caso di Maometto, invece, tutto questo non avviene: crisi epilettiche, o manifestazioni psicomotorie quali capitano agli indemoniati, e terribili dubbi attanagliano il Profeta, tanto che mi chiedo se, in relazione alle prime, gli errori commessi da Dio nella dettatura del Corano, e in seguito corretti, non fossero dovuti direttamente allo stato di salute del Suo prescelto (il quale, in tale ipotesi, fallibile già di per sé e per di più in non perfette condizioni, avrebbe ben potuto commettere anche altri errori, magari non corretti, od omissioni). Quanto ai dubbi, poi, tremendi e decisivi, non posso non rilevare che, a decidere della provenienza divina della Rivelazione, dopo le rassicurazioni al Profeta fatte dalla moglie Kadhyjia, è un sapiente che se ne stava non ricordo dove, che a nulla aveva assistito, da cui la moglie stessa lo accompagna, conoscitore a spanne della Torah e, probabilmente, anche dei Vangeli, il quale, sulla base del racconto fattogli, sentenzia favorevolmente (mi chiedo, ingenuamente ma non troppo, chi dei due è il profeta, cioè colui che è dotato del dono della profezia, se Maometto o il santone).
Le situazioni sopra rappresentate mi sembrano decisamente diverse, non solo nella forma ma pure nella sostanza.
E la Rivelazione che Maometto riceve, anticipiamo anche questo subito per capire meglio ciò che poi diremo, (appesantendo ulteriormente una relazione già di per sé non leggerina, ma lo faccio proprio per consentirvi di avere un quadro completo, se non chiarissimo), consiste essenzialmente nell’obbligo per il fedele di accettare che non esista alcun dio tranne che Iddio (Allah), «conoscitore dell’Invisibile e del Visibile, il Clemente, il Misericordioso. Egli è Dio. Non v’è altro Dio che Lui, il Re, il Santo, la Pace, il Fedele, il Custode, il Possente, il Soggiogatore, il Grandissimo. Sia gloria a Dio oltre a quel che a Lui associano. Egli è Dio, il Creatore, il Plasmatore, il Forgiatore. Suoi sono i Nomi Bellissimi e canta le Sue lodi tutto quel che è nei cieli e sulla terra. Egli è il Possente Sapiente… Presso di Lui sono le chiavi dell’arcano che nessuno conosce se non Lui», come recita il Corano (osservo che mai viene chiamato l’Infallibile, fors’anche per il fatto che durante la “comunicazione” del Corano a Maometto spesso corregge affermazioni precedenti, inconciliabili con quelle successive, come sopra ho fatto cenno, ciò che sarebbe ammesso, per i teologi islamici, in quanto «Egli è l’Onnipotente»). È il piccolo ma luminoso foglietto della professione di fede che, posto sul piatto della bilancia al momento del Giudizio finale, l’«Ultimo Giorno» nel Corano, farà aggio sui novantanove registri che rappresentano le colpe dell’islamico defunto e farà pendere la bilancia verso destra.
13. L’Islàm: breve profilo della sua struttura religiosa e teologica
Per il resto, è la stessa tradizione islamica (sunna) a dirci, ad esempio nell’episodio della delega di rappresentanza nello Yemen da parte di Maometto a Mu’ad, figlio di Gabal, che nel Corano non tutto è previsto, nemmeno per quanto concerne elementi fondamentali anche sotto lo stretto profilo religioso: ed è logico, per carità, rispetto a una Rivelazione così sintetica e, nella sostanza, autoreferenziale, in quanto introducente la figura di un Creatore giusto, misericordioso e clemente in base a criteri determinati, con il fluire del tempo, dallo stesso Profeta, dalle sue mogli e concubine, dai suoi compagni, dai Califfi, dai potenti loro successori, dai redattori delle diverse originarie versioni del Corano fino ai semplici fedeli ed alle loro stesse folkloristiche abitudini. Dai giuristi e anche dai sapienti – “sufi” – e dai filosofi, visti questi ultimi, però, ed è da notare, comunque con sospetto, quando non condannati al rogo, in quanto pur sempre ricercatori di verità più profonde, non soddisfatte dalla sola espressione rituale, dalle formule e dai gesti tanto cari alla massa dei fedeli perché di immediata applicazione, di facile ripetizione e di generoso compenso – il Paradiso, premio finale ed eterno –e, non è poco neppur questo, tanto utili al fine di evitare scottanti problemi e argomenti.
Per fare un esempio, ancora oggi permane una scissione teologica fra coloro che considerano l’uomo capace di programmare le proprie azioni e i risultati di questa vita, e i deterministi che assicurano una relazione diretta con la cosciente volontà divina (non è il fatum, il cieco destino dei latini): il libero arbitrio, la libertà dell’uomo è cosa ancora non chiara nell’Islàm, e, comunque, dimenticata dalla Rivelazione, e la stessa ragione di incertezza, analogamente, si riflette sulla concezione delle leggi naturali, al punto che lo stesso rapporto di “causa a effetto” viene dalla parte più numerosa e accreditata dei teologi negato in radice, considerandosi le leggi fisiche e naturali come «consuetudini di Dio», che vuole da Sé ciascun singolo atto, poiché se fosse il contrario verrebbe meno la Sua onnipotenza (al-Gazali). Nel Corano leggiamo, infatti, che «non cade foglia che Egli non lo sappia… e non v’è granello nelle tenebre della terra… che non sia registrato in un libro chiaro… (poiché) Egli è il Saggio che di tutto ha notizia».
Alla ovvia richiesta di spiegazioni, alla domanda di come tutto ciò possa accadere, di come Dio si comporti nell’ambito di simili problematiche situazioni e nell’applicazione delle enunciazioni coraniche in genere, vi si risponderà col principio della Balkafia («senza come»), in quanto Allah’àlam («Dio solo sa come vanno veramente le cose»): per quanto qui, sotto il profilo del fondamento religioso, abbia ben altra valenza, e non vi è in me alcuna intenzione di fare opera di banalizzazione o di spregiudicato, gratuito e profondamente ingiusto insulto, non posso non osservare, per gli effetti di cui tratterò in seguito, l’assonanza con quel «sai com’è» di sessantottina memoria, quando i partecipi attivi di quell’epoca facevano finta di capirsi attraverso la pronuncia sequenziale di frasi prive di logico significato, giustificando poi qualunque nefandezza e porcheria, intellettuale e materiale, con quella specifica locuzione.
Per farvi un esempio più concreto e attuale circa l’importanza dell’argomento, parliamo per un momento della legge attualmente in discussione al Senato riguardante la fecondazione assistita: la disquisizione portata dai cattolici punta ad analizzare la radice antropologica del desiderio di maternità a tutti i costi che, esaudito dall’offerta tecnologica, può finire col misconoscere il diritto del nascituro, e, in conseguenza di ciò, dei «perché» relativi, analizza il «come» delle varie tecniche artificiali del concepimento, che debbono tenere conto, ad esempio, delle relazioni psichiche che intercorrono fra madre e figlio durante il periodo della gestazione, del fatto che l’attuale chimica della vita è stata elaborata in tre miliardi di anni di lenta evoluzione e che, pertanto, si rischia non solo di smarrire il senso della propria identità personale, ma anche di perdere il proprio equilibrato rapporto con la natura (vedi Relazione alla Commissione della Camera dei Deputati; cfr. anche Pierre Bourdieu, studioso della famiglia, non credente, in interviste varie e saggio del 1996), del fatto che il concetto di famiglia, quale società naturale (art. 29 della Costituzione Italiana) viene meno, et cetera. Si analizza, pertanto, il “perché” insieme al “come”, secondo una logica, nella fattispecie, che cerca di formare un’etica pubblica in materia, non confessionale, pur notando che il disegno divino, così come è visto e sentito dai cattolici, pienamente soddisfa questa ricerca: ebbene, una discussione di questo tipo sarebbe fondamentalmente estranea allo specifico interesse dell’islamico, il quale si limiterebbe ad applicare la sua legislazione religiosa, eliminando alla radice il problema, non affrontandolo, semplicemente escludendolo.
Nella teologia islamica, privata del “come”, relazionata quale è a una religione di legge, prevalgono necessariamente, in argomenti come questi, semplificazioni, luoghi comuni e stereotipi, anche soltanto per il fatto che problemi di questo tipo non potevano essere neppure immaginati, come è ovvio, al tempo del Profeta e che la legge da Lui trasmessa è estremamente concreta, storicamente determinata e determinabile, quindi, in difficoltà strutturale nell’affrontare simili sconvolgenti tematiche, onde il ricorso a quelle figure «logiche» di supporto diviene un’altrettanto logica conseguenza, più che una necessità, atta sostanzialmente a impedire ogni approfondimento e discussione, cui esse fanno da impenetrabile velo.
Del resto provate a pensare, là dove si esclude il “come”, che senso avrebbero la fenomenologia di Edmund Husserl, e la logica ermeneutica, che si avvale della fenomenologia quale metodo, del professor Martin Heidegger, il figlio del sacrestano di Messkirch; provate a chiedervi che senso avrebbero due delle correnti di pensiero più importanti del nostro secolo, e che senso avrebbe, nel suo insieme, quella articolazione di riflessioni che è complessivamente conosciuta come «filosofia continentale europea»: non sarebbe nemmeno da prendere in considerazione, tutto qui.
A differenza di quelle popolazioni di origine beduina, i nostri popoli non hanno bisogno di nessun profeta: la Parola Rivelata l’abbiamo già, donataci con immensa ampiezza e profondità, senza chiusure ed anche senza mezzi di salvezza puramente formali, o quasi (ci viene richiesta la conversione del cuore, altro che formule, abluzioni rituali o giri della Kaaba), ma, soprattutto, donataci con un atto d’amore libero senza eguali. Si tratta di riconsiderarla, riamarla, tornarla ad applicare ogni giorno, da soli e insieme a tutti gli altri Cristiani, fedeli come noi, ricavare da Essa quei principi, valori e senso morali sulla base dei quali impostare nuove leggi e nuove capacità di convivenza. Anche a questi effetti, che sono forse pure i più appariscenti, è tesa l’azione di Sua Santità Giovanni Paolo II.
14. L’Islàm: cenni giuridici.
Sulla base della subiezione a Dio, il cui senso ho sopra cercato di chiarire, si sviluppa anche la concezione islamica dello Stato nonché dell’ordinamento giuridico.
Ne tratterò qui al minimo indispensabile per fornire qualche punto fermo necessario per comprendere il prosieguo della trattazione.
Nella religione islamica il diritto è contenuto strutturante (e non un derivato o una elaborazione) le regole della Rivelazione, in quanto strumento che consente anche nella realtà pratica la sottomissione del fedele a Dio (Allah), subiezione nella quale consisterebbe la natura stessa dell’uomo.
Pertanto, sulla base di tale concezione, la fonte normativa non possono essere altro che il Corano stesso e la Sunna, la raccolta degli elementi tradizionali, cui sopra accennavo, avente valore giuridico pari a quello del Corano medesimo.
Così, libro sacro e testo di legge vengono a coincidere e per questo motivo l’Islàm viene definito «religione di legge», in quanto la legge positiva è la legge di Allah, la Shari’ah, sulla quale si basa tutto il diritto islamico, da quello familiare a quello successorio a quello negoziale, complesso giuridico che, in quanto di diretta provenienza divina, esclude di per sé il concorso di qualunque altro ordinamento positivo.
Per l’Islàm non esiste, dunque, separazione fra religione e Stato, e, a dimostrazione di ciò e a richiamo di quanto sopra accennato, basti pensare al fatto che il diritto fa parte della scienza religiosa, anzi, con maggior precisione, esso è, con la teologia, la scienza religiosa per eccellenza, tanto che i cultori del diritto sono considerati a tutti gli effetti «i successori dei profeti», quasi sacerdoti laici, per così dire: si tratta, infatti, di una «religione di legge», in perfetta conformità a quanto sopra sinteticamente detto, e credo che questo esempio sia più illuminante di altri possibili.
Il soggetto principale del complesso delle regole giuridiche islamiche è Allah stesso, il quale regola direttamente l’attribuzione dei diritti, il cui pieno fruitore è soltanto l’uomo maschio, libero e musulmano, e ciò in quanto così è disposto in quei sacri testi: è evidente, non c’è bisogno di sottolinearlo, l’incompatibilità con la visione dell’uomo (e della donna, si rimarca) che è propria del Cristianesimo, là dove fondamento dei diritti è l’uomo stesso, nella sua intelligenza, nei suoi costumi, nel suo pensiero, nella sua libertà, non Dio.
Inoltre, mi pare qui il caso di accennare a un’altra inconciliabile divergenza: Gesù, Figlio di Dio, viene al mondo da Dio, muore sulla croce da uomo per salvare i suoi fratelli e ritorna a Dio, restando vicino a noi come Dio vivente. La concezione greca che vuole l’uomo provenire dal nulla e tornare al nulla è pienamente superata: l’uomo viene da Dio e torna a Dio. Il cristianesimo non è, dunque, definibile come una religione, avendo a proprio oggetto Gesù, Dio fatto uomo.
L’Islam, invece, è religione, annunciata all’uomo attraverso un altro uomo e fatta per l’uomo, in cui Dio è temporalmente determinato, con un premio finale, il Paradiso, che è prosecuzione di felicità umana: nell’Islam l’uomo non viene da Dio e torna a Dio, ma è uomo e resta uomo.
Tale complessiva concezione è gravida di conseguenze, che qui non è il luogo per analizzare nel dettaglio, fra le quali appaiono a prima vista potenzialmente dirompenti quelle sociali e politiche, sulle quali cercheremo di estenderci.
15. L’islamizzazione quale possibile effetto politico.
Siamo così arrivati, dopo avere tracciato qualche sintetico profilo dell’Islàm, quale necessario presupposto e per ciò che può servirci nel prosieguo, a trattare dell’islamizzazione: gli Stati Uniti (in cui, è utile sottolinearlo, predominano le lobbies finanziarie ebraiche), nella loro logica di dominio assoluto, congrua agli interessi delle cosiddette multinazionali, hanno stretto accordi vantaggiosi con gli stati produttori di petrolio, principalmente arabi e, quindi, islamici, mettendo in ginocchio l’Europa e abbandonando al proprio destino persino lo Stato d’Israele, – casa dei superstiti della tragedia dello sterminio nazista –, che ora non serve più (e il Pontefice subito si reca in quei luoghi, per motivi spirituali e religiosi innanzi tutto, ma rompendo anche un’estraneità reciproca della Chiesa cattolica e del mondo cristiano in generale con Israele, prospettando una futura possibile alleanza fra la Fede cristiana, che porta a livello universale il messaggio dell’unità di Dio, e quella ebraica, che tale compito non ha, caratterizzandosi piuttosto come etno-religione, attenta ai legami fra l’interesse del popolo e l’etica religiosa – un po’ come avviene nei per ora vincenti Stati Uniti d’America –).
I governanti statunitensi se ne sono ben guardati dal verificare che, in nome dei tanto sbandierati «diritti umani», che giustificano atroci guerre d’attacco, gli utili di quelle operazioni commerciali ricadessero sulle indigenti popolazioni locali e finitime, destinate a tragiche emigrazioni; se ne sono ben guardati dall’investire essi stessi e obbligare i loro partners arabi a investire massicciamente in quei territori e in quelli vicini, in modo da risollevare il tenore di vita di quei popoli, e soprattutto di impedire una crescente urbanizzazione che sta sostituendo il deserto alle terre fino ad oggi coltivate, seppur in modo tecnologicamente arretrato. Anzi, l’opposto: hanno seguito la logica della potenza imperiale, come avrebbe fatto e farebbe qualunque altro impero.
La stessa remissione dei loro debiti, per quanto sia operazione complessa e difficile, occorre dirlo, non è neppur entrata in una fase primordiale di esecuzione. La povertà, e la conseguente massiccia emigrazione verso l’Europa fanno gioco, portano inquietudine sociale presso di noi, criminalità cui non siamo abituati, in somma, disgregazione sociale, e, oltre tutto ciò, impediscono il sorgere di poteri politici alternativi al loro. Non importa se nello stesso tempo si sradicano interi gruppi sociali, si divelgono le radici di intere civiltà, si desertificano ampie zone dei continenti più poveri, in particolare l’Africa: l’importante è conservare l’imperio, il dominio.
Ma non solo: quei popoli sono per la maggior parte di religione musulmana e di morale islamica, incerta anche in tema di libertà, come abbiamo visto, e gli Stati islamici, con i quali gli Stati Uniti hanno concluso gli accordi di cui dicevo, hanno tuttora in atto vere e proprie, dettagliate e ad ampio raggio, strategie di conquista islamica in Africa, spendendo forti somme (anche stati poveri come l’Egitto) per la propaganda islamica, diffusa attraverso i mass-media, i «centri di cultura», «le scuole islamiche» e soprattutto le università, anche con borse di studio per gli stranieri, africani nella fattispecie, soggetti istituzionali tutti che costituiscono il ponte di passaggio dal livello culturale a quello religioso, infine a quello politico, perché l’Islàm è anche un progetto politico o, se si preferisce, un progetto politico-religioso, come sopra indicato.
Dopo i vari fatti di oppressione violenta dei Cristiani verificatisi spesso nel recente passato e negli ultimi tempi, le nuove violenze di questi giorni in Nigeria, a Kaduna, dove in luogo della Costituzione laica, i musulmani, minoranza rispetto ai Cristiani, hanno introdotto a forza la Shari’ah, la legge islamica, possono essere assunte a ennesimo esempio paradigmatico. Anticipo una possibile obiezione: qualcuno potrebbe farmi rilevare che quanto sopra è riferito all’Africa. Potrebbe in sostanza dirmi: «Sarà anche vero, – ed è difficile dire che non lo è, anche avendo le fette di salame sugli occhi ed i tappi nelle orecchie –, ma qui, in Europa, siamo addirittura in un continente diverso, su di un territorio e nell’ambito di una cultura non paragonabili a quelli africani». Controbatto immediatamente: prescindendo da richiami storici, allorché sotto la dominazione musulmana bisognava comunque pagare un’apposita tassa per potersi dire cristiani e praticare la nostra religione (metodo infido, per mezzo del quale, e contro l’interesse degli stessi islamici, si sono avute conversioni in massa, specie nelle terre cristiane del Medio Oriente e del Nord dell’Africa, persino ad Antiochia, dove i seguaci di Gesù si chiamarono per la prima volta Cristiani), faccio osservare che, quando si applicano su larga scala, là dove ciò è possibile, metodi come quelli sopra descritti, ebbene, significa che il metodo è fondamentalmente quello descritto. E le annotazioni giuridiche sopra riportate ci confermano nel fatto che per gli islamici l’unica legge da applicarsi universalmente è proprio la loro, e nessun’altra.
Del resto, un simile e per noi inaccettabile comportamento non è incongruo rispetto alla religione islamica, e ciò non tanto in riferimento alla Jihad (significa «sforzo», «forzatura», sottinteso «sulla via di Dio», versetto n.216 della seconda Sura del Corano) minore (quella maggiore consiste nella guerra dell’io contro le sue voglie e malvagità), da noi meglio, ma erroneamente, conosciuta come «guerra santa», poiché essa corrisponde al concetto della Roma antica di «bellum justum et pium», per il quale sia le ragioni giustificatorie sia le formalità di conduzione della guerra sono necessarie, e sono da attuarsi non in contrasto con le prescrizioni religiose e le sanzioni divine che ne derivano, quanto in riferimento al concetto stesso della Ummah, la comunità musulmana, introdotto da Maometto, grande e geniale novità nel mondo beduino, in cui la continua e sanguinosa contrapposizione fra gli uomini era basata sulla tribù. Essa implica, però, uno spostamento della contrapposizione all’esterno, verso coloro che non ne fanno parte. E l’impetuoso e vittorioso attacco agli imperi bizantino e persiano, con le relative conquiste, mi pare esserne una conferma.
L’emigrazione sempre più massiccia di masse islamiche verso l’Europa è oggettivamente un pericolo, come tale riconoscibile da tutti, e a maggior ragione, dagli Stati Uniti d’America e dal loro Presidente. Ma essa serve anche a impedire il formarsi di una potenza politica alternativa alla loro, e, ancor più, il riconsolidarsi di una forte coscienza morale cristiana, deleteria per le mire imperiali della Potenza Unica Mondiale: l’avvento di una coesa unità dei Cristiani sarebbe per lei mortale, per quanto abbiamo sopra detto. E in tale ottica io vedo il continuo battage pubblicitario da parte delle Nazioni Unite e delle altre agenzie internazionali tendente a convincerci che tali massicce emigrazioni avvengono per il nostro bene («a fin di bene», quanti crimini, anche da parte cattolica, ha coperto tale espressione!), prescrivendoci addirittura, come fosse una ricetta del «medico della mutua», le quantità «indispensabili» di esse: e ci sono i fessi che ci credono.
La cosa ha anche un considerevole aspetto economico per i contraenti gli accordi «petroliferi», in quanto consente loro di intascare per intero tutti i relativi profitti, non erosi dagli investimenti doverosi cui sopra accennavo, accollando questi ultimi agli europei, che per aggiunta debbono sobbarcarsi il peso finanziario più salato di quegli accordi stessi.
Le combinazioni di interessi economici e politici sopra descritte possono, dunque, portare a ipotizzare come effettiva la possibilità di un tentativo di islamizzazione (rapportato ai vantaggi della globalizzazione, quanto meno parziale, dell’Europa, sui cui metodi di attuazione rimane per ora incertezza: tutto dipenderà, seguendo l’ipotesi, da come si evolveranno nel tempo gli interessi delle parti interessate e i loro reciproci rapporti di forza, ciò che comporta, tuttavia, ed è amarissima constatazione, l’estrema difficoltà per gli europei di interagire al riguardo. Vedremo però di esaminare tale ipotesi più attentamente e dettagliatamente in seguito.
16. Difficoltà di natura religiosa nei rapporti fra Islàm e Cristianesimo.
Ricordo che, pur appartenendo ai popoli del Libro, secondo la visione islamica, Ebrei e Cristiani sono accusati dai Musulmani di aver falsificato le Sacre Scritture (noi Cristiani, in particolare, il capitolo 16, 7-8 del Vangelo di Giovanni, dove sarebbe stato sostituito con lo Spirito Paraclito, in greco antico paraclitos, il presunto riferimento all’Amato, in greco antico periclitos, che sarebbe lo stesso Maometto, il cui nome in arabo, Muhammad, comprende la radice «ahmad», che significa per l’appunto «amato») e la cosa, presso i Musulmani, che rifiutano la lettura delle Sacre Scritture, pur richiamate dal Corano come precedente profezia, proprio perché, a loro dire, falsificate, è per certi versi paragonabile all’accusa di deicidio mossa agli Ebrei dai Cristiani stessi, che tante immani tragedie ha provocato e che altre potrebbe provocare, direttamente ai nostri danni, questa volta.
Che l’accusa non stia per nulla in piedi, almeno per quanto riguarda i suindicati versetti del Vangelo di Giovanni, appare evidente a qualunque esegeta occidentale con un briciolo di cervello, ma il problema è un altro, e quello della «falsificazione» appare essere un espediente, più che altro: la realtà è che l’Islàm ha nel Corano, libro «inimitabile» scritto in lingua sacra (nel Cristianesimo non esiste la lingua sacra ma soltanto quella liturgica), la parola di Dio Altissimo (Allah), increata ma non incarnata nei volumi che ne riportano il testo, ha nel Corano il Verbo di Allah, Suo attributo coeterno, che corrisponde in questo al Cristo della Religione cristiana, Verbo che ha una sua forma corrispondente al corpo di Cristo (per restare nella similitudine), che è la lingua araba, inseparabile dal Corano come il corpo di Cristo è inseparabile da Cristo stesso (vedi al proposito e per il paragone, quanto acutamente scritto dal professor Sergio Noja, L’Islàm e il suo Corano, Oscar Mondadori). Allah parla arabo, e i Suoi fedeli sono orgogliosi di parlare la Sua stessa lingua.
Il Musulmano ascolta con entusiasmo quella lingua sacra, che è sua, che è divina, che raggiunge anche vette artistiche che muovono il suo orgoglio ed il suo piacere; egli non frequenta per imposizione di costume le moschee, ci va volentieri! Non ha dubbi, è assolutamente sicuro di sé, la sua lingua è quella del Verbo, ha una sua logica interna che rende gravemente erroneo il tentativo da parte occidentale di proiettare il nostro pensiero e il nostro comportamento sul suo mondo, tanto diverso dal nostro: mi sembra semplicemente assurdo, in simile contesto, parlare, per esempio, come appare essere di moda, di reciprocità, visto che la reciprocità è principio generale e categoria di matrice occidentale, cristiana, inconciliabile con quelle certezze.
Mi sembrerebbe, invece, più plausibile e consono, in lato pratico, per esempio, affrontare in profondità con gli islamici il problema della criminalità presso di noi, poiché, se pur è vero che il tasso di criminalità è più o meno lo stesso per ciascuna etnia, in relazione alle proprie norme penali, è innegabile, tuttavia, che i reati commessi dagli ospiti non sono tollerabili, poiché in casa d’altri si esige un riguardo per le cose e le persone superiore a quello richiesto in casa propria. E ciò, che non ha nulla a che vedere col razzismo, è ben chiaro, oserei dire sacro, all’islamico, molto sensibile alle antiche norme dell’ospitalità.
Occorre cioè, a mio avviso, affrontare compiutamente di volta in volta singoli concreti problemi senza far sì che essi debordino nella visione globale dell’islamismo, là dove ogni e qualunque accordo sarebbe assolutamente improbabile, se non impossibile: soltanto così possiamo sperare di disinnescare eventuali incombenti pericoli, specie di matrice integralista.
Ricordo anch’io, come ricordano il professor Sergio Noja ed il professor Gianfranco Traini, bergamasco come me, dell’Alta Valle Brembana, coi quali assistevo al passaggio di un corteo di dimostranti all’inizio degli anni Ottanta del secolo appena trascorso, uno striscione che diceva «Neither East – Nor West – Islàm is the best» (Né Est né Ovest, Islàm soprattutto): credo sintetizzi esattamente quello che sto dicendo, oltre alla chiara valenza politica dell’islamismo.
Capite ora quel mio richiamo alla vostra attenzione, all’inizio, della fondamentale considerazione di come la Verità cristiana non possa significare e non sia un’ideologia, poiché non può avere la pretesa di imporre agli altri il proprio concetto di ciò che è giusto e buono, in quanto ciascuno di noi deve conquistarsi la libertà propugnata dal Vangelo attraverso l’insegnamento di Gesù mediante il continuo perseguimento della Sua Verità? È qui che va nuovamente inserito.
17. Islàm ed ideologia: un rapporto non chiaro.
Riprendiamo fiato e proseguiamo: nonostante io non sia, come avrete certamente ben capito, anche soltanto per i miei continui riferimenti a stimatissimi docenti della materia, uno specialista di Islàm, pur sapendone qualcosa, e, anzi, a scanso di equivoci, vi confesso la mia notevole ignoranza al riguardo, con le conseguenti possibilità di errare, nel rivendicare il diritto a ragionare autonomamente secondo una mia logica di stampo occidentale, fondata sul dubbio («Dubito, ergo sum», Cartesio, come è noto), credo si possa facilmente arguire che, allorché una religione ha come proprio fondamento la sola affermazione «non vi è altro Dio che Allah (cioè, Iddio)» e tutto il resto consiste in una religione di legge, fondata per di più sulla «sunna» (significa «ciò che usa fare», nella fattispecie riferito al Profeta, ai suoi comportamenti anche pratici), e cioè la tradizione dei gesti, simbolici e no, ed agli usi e costumi di Maometto, già di per sé uomo fallibile, riportati da terzi, quindi, con la possibile introduzione di istituti e modalità nemmeno lontanamente oggetto di «rivelazione» alcuna (vedi le norme sulla lapidazione dell’adultera, fatte inserire «abusivamente», è assai probabile, da Omar), la modificazione e applicazione ideologica del tutto sta immediatamente dietro l’angolo.
Peraltro, e ad apparente conferma di quanto sto dicendo, non nel modo sopra descritto si comportò il Profeta allorché, perseguitato dai membri della sua stessa tribù («nemo propheta in patria», val la pena di dire), nel 615 d.Ch., fece rifugiare sua sorella Ruqayya ed altri a lui fedeli in Etiopia, presso il Negus, re cristiano d’Etiopia, col quale intrattenne sempre ottimi rapporti e che accolse benignamente i fuggitivi, tanto che alcuni di essi, parenti o congiunti di Maometto, si convertirono al Cristianesimo, senza per questo suscitare le ire del Profeta. E non bisogna dimenticare, per quanto non strettamente attinente all’argomento, che fra le sue concubine, una, Maria la Copta, ascoltatissima, era cristiana, e continuò a professare la sua religione, attraverso la quale erano filtrati i preziosi suggerimenti al convivente.
Non è difficile individuare, o, quanto meno, non è incongruo ravvisare, proprio sulla base degli stessi concetti di «sunna» e di «religione di legge» che ho prima nel minimo sviluppato, in una così radicale difformità di comportamenti, da quelli di ieri, riferiti al fondatore della religione islamica, a quelli di oggi, riferiti ai suoi epigoni, la mala pianta dell’ideologia settaria.
Peraltro la stessa accusa, ed anche in forma più grave, secondo me, potrebbe essere rivolta agli stessi Cristiani, e cattolici in particolare: dalle Crociate alle prese di posizione sulla scienza, a varie scomuniche, alle persecuzioni nei confronti dei cosiddetti eretici, la Chiesa («casta meretrix», cfr. Giosuè nell’episodio di Raab, 2,1-3-6-17-23-25; vedi anche Lettera di Giacomo 2,25) ne ha combinate di tutti i colori, entrando in collisione profonda con l’insegnamento di Gesù.
Ed è per questo che, durante il presente Giubileo, il Papa, con gesto epocale, chiede incondizionatamente perdono, per sé, per tutti noi, per i nostri predecessori, per le strutture ecclesiastiche stesse, del presente e del passato, e lo fa con dolore, con grande pentimento, che dovrebbe avere corresponsione nel nostro. Fra le altre cause, l’ideologia ci ha spesso resi indegni di essere chiamati Figli di Dio, fratelli di Gesù, il Messia, essa ha sovente costituito la base del tradimento della nostra Fede, deviandola, alterandola, intellettualizzandola. In relazione a tale indegnità, per la prima volta la Chiesa cattolica, che finora di fatto giudicava tutti gli altri, accetta di essere giudicata, mettendosi nella stessa posizione di un individuo peccatore, accetta di non considerarsi esterna alle colpe degli uomini: è un grande evento, da qualunque parte e comunque lo si giudichi.
Questo gesto di penitenza è incomprensibile per gli islamici, che da tali atteggiamenti si sentono invece rafforzati nel loro credo, che non abbisogna di simili profonde e tragiche revisioni: per quanto loro addebitabile vi risponderebbero, come già ho detto sopra, «Allah’àlam», Dio solo sa come vanno veramente le cose, con tanti saluti.
I Musulmani (significa «oblati», coloro che danno tutto se stessi, come sopra accennato) ma, direi meglio, gli islamici sono, quindi, sì nostri fratelli, guai a dimenticarlo, guai ad avere verso ciascuno di loro, nell’ambito dei rapporti quotidiani, un comportamento men che fraterno, ma, come comunità, come insieme, dobbiamo riconoscere che può sembrare, e lo si potrebbe anche sostenere, che si presentino a noi apparentemente armati con la peggiore delle armi, quella ideologica: la Shari’ah, quanto meno nella sua interpretazione, o in una sua interpretazione ammessa e condivisa, potrebbe anche essere ideologia, altro che storielle; forse non è del tutto inesatto parlare di ideologia islamica, come qualcuno ha teorizzato, o, almeno, occorrerebbe approfondire l’argomento e chiarire dove precisamente si annidi l’inesattezza, poiché lo stesso concetto di «religione di legge» applicabile all’Islàm, lo ripeto, induce in tal senso.
Analizzare il problema, approfondendolo, non è vuoto esercizio culturale, poiché da un lato consente di individuare quelle correnti dell’islamismo, esistenti, che volgono la loro attenzione all’umanesimo di stampo euro-occidentale o quelle che rifiutano un’interpretazione letterale dell’insieme normativo, cercando interpretazioni diverse, ciò che significherebbe valorizzarle, e dall’altro permette di cogliere con maggior precisione e contezza i lati oscuri di quel pensiero, consentendoci di approntare per tempo le opportune difese: non dimentichiamoci, comunque, e lo dico a scanso di equivoci, che la nostra civiltà molto deve al pensiero arabo, nel campo della matematica, come della fisica e dell’astronomia, onde non si può e non si deve fare di tutte l’erbe un fascio e gettare il tutto, poiché tale atteggiamento sarebbe tragico, oltre che controproducente.
Ricordiamoci, tuttavia, che l’insieme è assistito da quella assoluta sicurezza di sé cui accennavo prima, e che già di per se stessa appare ideologica. Noi ci riempiamo la bocca di chiacchiere circa il crollo delle ideologie, ma dimentichiamo troppo spesso che il vuoto ideologico non esiste.
Per concludere questa parte d’argomento, osservo che qui, nel problema del possibile coagularsi di ideologie islamiche, da distinguersi dal comportamento del singolo musulmano, può delinearsi, secondo me, un abbozzo della linea di confine fra il dovere per il Cristiano di accogliere e assistere ogni uomo come un fratello, e il dovere per ogni uomo di difendere la propria cultura e la propria civiltà, individuali e sociali e, per ogni Cristiano, la propria Fede, che ha l’obbligo di poter liberamente, gratuitamente e pacificamente annunciare, oltre che praticare secondo i rispettivi riti.
Anche prescindendo dall’ipotesi formulata, resta comunque assodato che, quando presso di noi si apre una «grande moschea» o giàmi’, (che significa letteralmente «moschea», ma che è da distinguersi dal luogo di semplice riunione per la pratica del culto, i musallà, letteralmente «luoghi di preghiera», «cappelline», presso di noi però chiamati pure essi, seppur impropriamente, moschee), occorre dirlo con chiarezza una volta per tutte, con franchezza sostenuta da sicurezza teorica, come è, si pone anche un problema politico, poiché essa non è soltanto un degnissimo luogo di culto e preghiera, ma anche un luogo di progettazione politico-religiosa, per di più, con buone probabilità, ideologizzata, un luogo da un lato sacralmente indispensabile, che è necessario per soddisfare la connessione rituale con la divinità, quindi assolutamente sacro, inviolabile e intangibile (ai Cristiani questa componente materiale del rito, peraltro presente anche fra gli Ebrei, è estranea, poiché ovunque si celebri l’Eucaristia, in una cantina come in cima ad un monte, lì c’è Gesù, il Cristo, e, dunque, lì c’è la Chiesa), ma dall’altro anche luogo di elaborazione di teorie e pratiche in conflitto teorico certo con i principi, i valori ed il senso della nostra civiltà.
Si è erroneamente sperato, come dicevo all’inizio, che, al momento del crollo del Muro di Berlino, la Fede cristiana sostituisse l’ideologia marxista: in realtà tale sostituzione sarebbe potuta avvenire non attraverso la Fede bensì, eventualmente, attraverso un’ideologia di matrice cristiana, o cattolica, se preferite, che avrebbe dovuto essere attentamente e previamente preparata, pronta ad entrare e mettersi in giuoco.
Il giudizio storico largamente negativo, da parte mia, del comportamento posteriore ai primi anni Cinquanta del secolo circa i partiti di cosiddetta ispirazione cristiana, segnatamente, in Italia, la Democrazia Cristiana, direttamente sostenuta dalla Chiesa cattolica, e la personale disistima nei confronti di molti dei loro dirigenti, ha fondamento proprio nel loro comportamento in questo frangente, e cioè nella dimostrata loro incapacità, nel momento della necessità, di essere portatori di una cultura forte, come avrebbe dovuto essere quella che al Cattolicesimo si ispiri, che per di più avrebbe dovuto risultare esercitata e provata nella sua attuazione pratica per quarantacinque anni, un periodo di occupazione del potere altrimenti del tutto ingiustificato.
Si sarebbe dovuto trattare di una cultura «superiore», espressione di una Storia di quasi duemila anni fondativa della nostra civiltà, e, quindi, di per sé non bisognosa di forzature per imporsi, “naturalmente” superiore a ogni ideologia, e di essa avrebbero dovuto essere di esempio la gestione degli Stati in cui avrebbe dovuto essere da tempo consolidata, l’Italia in primis. L’unica dimostrazione che abbiamo avuto è stata quella della totale assenza di forti indicazioni di ispirazione cristiana, anche sotto il semplice profilo culturale, e l’esempio dato da questi attori della politica appare piuttosto essere stato ispirato da malafede, di là dai numerosi reati commessi, protratta per decenni, ingannando il popolo ed i fedeli, al solo scopo di perseguire obiettivi personali e di gruppi d’affari ed interessi: e così, oggi, dobbiamo pensare ad affrontare, quasi disarmati sotto l’aspetto culturale, possibili o, forse, probabili ideologismi islamici.
Amici miei, io credo che, se non sapremo riconquistare nel nostro intimo, pacificamente, la nostra radicalità (Gesù è il Figlio di Dio, il Messia, il Risorto, venuto al mondo per la redenzione dell’intera umanità e, conseguentemente, la sua liberazione dalle strutture del peccato), e sempre pacificamente ma costantemente riaffermarla e praticarla nella vita di tutti i giorni, potremmo anche, in quanto imbelli, soccombere alla loro cultura religiosa, più genuina, più forte, più attrezzata, inaugurando così il terzo millennio dalla nascita di Cristo – Dio non voglia. Si tratta di cosa purtroppo possibile per la nostra inconsistenza, che comporterebbe una terribile, anche se forse ancora sufficientemente lontana, tragedia per la nostra civiltà, e ciò quand’anche non vi fosse spargimento di sangue, del che mi permetto di dubitare, visti sia i tremendi fatti più sopra citati, limitati all’Africa, per ora. Ricordo che pure le risultanze storiche del passato vanno in questa direzione, poiché da esse risulta sì che nei territori conquistati dagli islamici fu praticata la tolleranza, con l’abbandono dello spirito missionario delle origini, in quei momenti esercitato anche con la violenza (se, dopo la conquista, tutti si fossero convertiti, come in parte avvenne, come avrebbero potuto riscuotere le tasse dagli infedeli?), ma è anche vero che la violenza e la ferocia delle conquiste sono rimaste impresse nel ricordo delle popolazioni dell’Occidente cristiano.
Mi sembra dai Vostri sguardi di essere un profeta di sventure…Chiedete informazioni al riguardo, se ne avete l’opportunità, a padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma, uno dei più grandi e noti esperti di islamismo della Chiesa cattolica, consulente del Papa per il recente viaggio in Egitto, e sentirete cosa avrà da dirvi al riguardo, sia sotto il profilo del racconto dei fatti storici, che sotto quello teorico-religioso-politico, che quello delle conseguenze pratiche.
18. Globalizzazione ed islamizzazione: interconnessioni e sconnessioni.
Dopo questa disamina, che ho cercato di rendere analiticamente ma in modo chiaro e fruibile, il rapporto fra globalizzazione e possibile islamizzazione vi apparirà, almeno lo spero, in tutta la sua drammatica complessità e sostanziale irriducibilità a fenomeno unitario.
A mio avviso, e come già avevo precisato all’inizio della trattazione dell’argomento, non c’è un rapporto diretto, un rapporto di “causa a effetto” fra i due fenomeni, di cui uno certo e l’altro possibile, uno tecnologico, e di pensiero tecnologico, e l’altro socio-religioso-politico, ma soltanto un rapporto mediato da svariati altri fattori, e cioè gli interessi, per ora pienamente convergenti ma distinti, degli Stati dell’area petrolifera, come abbiamo visto, degli Stati Uniti d’America e dei raggruppamenti economici che sul loro territorio hanno sede a sfruttare il fatto tecnologico della globalizzazione e le sue enormi potenzialità al fine, gli uni di appropriarsi di tutti i ricavi, senza spese aggiuntive, i secondi di estendere e consolidare il proprio dominio politico sull’intero orbe terraqueo, impedendo il sorgere di potenze e forze concorrenti, e gli altri di penetrare ed egemonizzare tutti i mercati, compresi quelli petroliferi, peraltro già ampiamente dominati, sfruttando la inadeguatezza delle vecchie strutture statuali, fondate sul controllo territoriale.
È ipotizzabile che un effettivo, non soltanto non impedito o tutt’al più parzialmente agevolato, tentativo di islamizzazione, totale o parziale, dell’Europa si possa inserire in questo disegno, in quanto da un lato produttivo di inquietudine e grave disgregazione sociale, che impediscono o ritardano il formarsi di poteri e forze contrastanti quell’assoluto dominio, e dall’altro portatore di immediati e colossali profitti, in quanto scaricherebbe i costi delle operazioni di attuazione di quegli interessi, necessariamente mono-oligopolistici, su popoli terzi, in specie quelli europei?
Occorre al riguardo considerare che un progetto di tale portata, cioè di attuazione pratica e diretta del tentativo stesso e non di semplice, se pur complice e finta «neutralità», richiederebbe innanzitutto inequivocabili atti politici, palesi finanziamenti ostili, e, infine, costosissimi comportamenti chiaramente destinati a tali fini, insieme di fatti che sfocerebbe, quasi sicuramente, in una terribile guerra, che non sarebbe soltanto economica: non è francamente possibile sostenere un’ipotesi del genere, anche soltanto sulla base della considerazione che quegli interessi, di dominio, che deve essere il più pacifico possibile per meglio sfruttare i dominati, e finanziari, che devono dare profitti e non indefinibili costi, sono nettamente in contrasto con un simile ipotizzato scenario, nel quale andrebbe inserita anche la variegata e incontrollabile quantità e qualità dei diversi popoli aderenti all’Islàm.
Un simile progetto sarebbe soggetto a tutte le variabili sopra evidenziate che, se adeguatamente calcolate anche sotto il solo profilo puramente matematico, danno l’idea della sua vulnerabilità oggettiva: il giuoco non varrebbe la candela delle probabilità di riuscita.
Le inostacolate migrazioni di quantità di disperati prevalentemente islamici, l’imposizione dell’inserimento nella costituenda Unione Europea di stati asiatici con popolazione a maggioranza islamica sono per ora elementi di calcolata e grave destabilizzazione, politica, religiosa e morale, dei nostri popoli, per le ragioni che abbiamo sopra analiticamente esaminato, ma, obiettivamente, non appaiono essere l’inizio dell’esecuzione di un progetto che potrebbe a buon diritto essere definito criminale, anche in senso tecnico, in quanto comprenderebbe la lucida determinazione di installare nel tessuto europeo, nella sua zona territoriale più delicata, i Balcani, enclaves mafiose inestirpabili, sede mondiale della criminalità organizzata.
È la nostra forma mentis, la nostra abitudine a farci aiutare e difendere dagli Alleati d’oltreoceano, la nostra cinquantennale delega a loro della risoluzione dei nostri principali problemi, anche contingenti, il nostro peggior nemico, ciò che potrebbe far precipitare in tragedia un comportamento tattico ostile di quelli che nel passato sono stati nostri amici e che oggi non siamo capaci di contrastare quali competitori sul piano socio-economico-politico. Si deve valutare, secondo me, che essi neppure immaginano di arrivare a tanto gravi conseguenze con la loro decisa contrapposizione, intendendo il loro come un giuoco duro, spietato, ma non così possibilmente devastante, non essendo neppur pienamente consci della nostra intrinseca debolezza, attribuendo a noi una forza morale simile alla loro, che è viva, derivata da una concezione etno-religiosa, come abbiamo detto, tutt’altro che inconsistente, come invece è quella europea.
La globalizzazione così come attuata da quegli attori poderosi che sopra abbiamo indicato, inoltre, per sua stessa intima natura, come visto, necessita di standardizzazione tendente alla omogeneizzazione, e, se da un lato, come abbiamo pure detto, la forma della religione islamica, in quanto religione di legge, di una legge nata nel deserto arabico, ben si attaglia a essa, in quanto non problematica, sostanzialmente estranea ai grandi quesiti posti dalle tecnologie moderne, e che quindi non ostacola quel tipo di globalizzazione, dall’altro vincola fortemente i comportamenti individuali alle tradizioni, anche a quelle folkloristiche delle singole tribù, o delle aggregazioni sociali che le hanno sostituite, comportamenti che restano in buona parte indifferenti alle proposte commerciali omogeneizzate, anche nel caso di inurbamento e di sradicamento dai villaggi di origine, il tutto quanto meno nel medio-lungo periodo: e le concentrazioni economiche cosiddette multinazionali non potrebbero attendere tanto tempo, in quanto non dotate di progettualità.
Mi faceva osservare al riguardo, ed è osservazione acutissima, se ben considerate, una cara amica, grande e notissima stilista nel settore della pellicceria, Maria Perego, il fatto che mai ella ha venduto suoi prodotti agli islamici qui in Italia, ma ben li ha venduti nei loro paesi, in Turchia, per esempio, in ottima quantità prima della crisi russa di due anni fa, e ciò tranquillamente in barba a ogni resistenza ecologista tanto sentita presso di noi e là ignorata, in quanto estranea alla cultura locale.
Essi, dunque, usano senza difficoltà i nostri prodotti anche più qualificati, e, quindi, nella fattispecie e in ipotesi, pure quelli frutto della globalizzazione standardizzata; non hanno remore culturali al riguardo, non necessitano di operazioni preventive di disgregazione culturale, però si servono esclusivamente dei loro negozi per i tessuti, la biancheria e gli abiti, per i generi alimentari et cetera, e al supermercato comperano soltanto quei prodotti di drogheria e lo scatolame compatibili con le loro abitudini, nonostante che da anni risiedano presso di noi.
Ciò non è perfettamente consono alla globalizzazione standardizzata, in quanto, se da un lato a essa si richiedono canali appositi di smercio fra loro differenziati secondo le diverse culture interne al mondo islamico, cioè per i singoli paesi a maggioranza di popolazione islamica (e ciò può già costituire difficoltà, ma non insuperabile), dall’altro lato ben diverso e complicato si profila il problema della distribuzione delle merci nei singoli negozi collocati nei territori di emigrazione, ognuno dei quali, in ogni località di insediamento, rappresenta una diversa cultura di provenienza, con le relative diverse fonti di approvvigionamento, ciò che frammenta incredibilmente il sistema di offerta: non è cosa né facile né semplice da risolversi, come ben potete immaginare… e neppure provateci a pensare che quelle mostruose aggregazioni economiche di cui prima parlavamo non ci abbiano riflettuto. È pur vero che per ora questo secondo problema è di ridotta rilevanza (e anche il primo non è primario), e che quegli enti sono privi di progettualità, puntando esclusivamente al massimo profitto immediato, ma è pur vero che, se strategia di invasione fosse stata messa in atto, esso sarebbe troppo evidente per non essere stato preso in considerazione, anche nel suo effetto secondario di distruggere un mercato, quello europeo attuale, che è il più remunerativo e attaccabile di tutti.
Più o meno, qualcosa di simile a quanto descritto per i paesi islamici avviene nel modernissimo Giappone, la penetrazione del cui mercato è pressoché impossibile, proprio per ragioni religiose, morali e culturali, ben più radicate nello spirito di quanto non avvenga per le popolazioni islamiche in genere, ciò che consente ai giapponesi di essere competitori forti, e non passivi, nell’economia globalizzata.
Però, occorre anche osservare che, per tutto quanto sopra riportato, si prospetta un’ulteriore e, per gli effetti, ben diversa riflessione, di matrice realistica: nella sostanza, appare chiaro che i popoli di cultura islamica, nel loro assieme e nella loro generalità, si possono definire “meno problematici” rispetto ai popoli di tradizione cristiana di fronte al fenomeno globalizzatore, e contemporaneamente anche a esso più refrattari, come abbiamo visto, in quanto non posseggono gli strumenti e le strutture culturali atti a seguire, se non proprio a fronteggiare, i nuovi prevedibili e “devastanti” sviluppi del fatto “globalizzazione”, di questo fenomeno che si genera e si accresce insieme al nascere e al potenziarsi della “tecnicizzazione” dell’uomo, indipendentemente da qualunque filosofia, teoria politica o teologia.
I nostri popoli, dopo due secoli di coesistenza col ed esperienza del fenomeno stesso (a partire dalla Rivoluzione industriale), cominciano solo ora a prendere coscienza della sua natura e ad abbozzare le prime contromisure, possedendo però già quelle risorse culturali che consentono loro di analizzare e poco alla volta comprendere la situazione. Sono forse pronti, cioè, se radicheranno ancor più i principi e valori della loro Storia, a dare inizio a una nuova fase di civiltà umanistico-cristiana, in cui la Rivoluzione industriale tecnologicamente avanzata e potenziata in modo spaventoso, oggi definita “globalizzazione”, possa essere in qualche modo dominata e sfruttata al meglio, riducendone gli effetti negativi. Per gl’islamici non è così.
Per loro, volenti o nolenti, c’è uno sfidante, Occidente, Modernità, Globalizzazione, o altro che dir si voglia, del quale loro stessi sono i destinatari della sfida, cui non possono sottrarsi, e di cui hanno terrore, come è di fronte all’ignoto che dà manifestazioni di potenza: i Paesi musulmani, le confraternite e le scuole teologiche che costituiscono il tessuto della galassia islamica, i musulmani di tutto il mondo (un miliardo e 300 milioni), nessuno è escluso da tale confronto, anche se essi generalmente sono oggi privi degli strumenti indispensabili per affrontare “degnamente” tale sfida. E perciò ne hanno paura.
Dobbiamo considerare che o gli sfidati intendono rinunciare ai vantaggi e agli sviluppi della tecnica occidentale, oppure dovranno modificare, a partire da quelli che stanno fra noi, le loro convinzioni, almeno quelle di maggior stridore con le esigenze del nostro vivere “globalizzato”.
Al riguardo, osserviamo che già è presente una decisa frammentazione nel mondo musulmano: alcuni vorrebbero fin d’ora vivere “all’occidentale” e infischiarsene delle questioni della fede, altri – molti – vorrebbero conciliare modernità e Islàm, mentre una minoranza inferocita e per ora divisa – per fortuna sua e nostra – al suo interno chiede il jihad minore contro il Satana occidentale. Due cose sono certe. Primo: la maggioranza dei musulmani nel mondo, oggi, diffida del cosiddetto “modo di vivere occidentale”, ignora o disprezza i suoi valori, è frustrata dinanzi al suo possente e arrogante dilagare, ma ne invidia la ricchezza e aspira al possesso della tecnologia e dei beni materiali. Ciò che, come abbiamo visto, costituisce contraddizione in sé, come volere «la botte piena e la moglie ubriaca», così come abbiamo sperimentato noi “occidentali”. Secondo: dinanzi a questa realtà, aumenta il numero dei musulmani che però vorrebbero in qualche modo salvare anche le loro tradizioni e si chiedono se ciò sia possibile. La tendenza è particolarmente presente nei ceti (vi parrà strano) “borghesi” e colti. Molti dei padri e dei nonni di tutti costoro sono stati a loro tempo toccati dall’occidentalizzazione coloniale oppure sono rimasti fedeli a quelle tradizioni popolari, religiose e nomadiche o contadine che oggi i fondamentalisti vorrebbero restaurare. Immaginatevi il gorgo di corti circuiti culturali che questa situazione comporta. Analoghe situazioni stanno nascendo dappertutto nel mondo musulmano. Anche in Iran, dove più di vent’anni fa fu quasi corale la volontà di recupero delle tradizioni islamiche. Ma ora è cresciuta anche lì una generazione di ventenni che sogna la California, come in tutto il resto del mondo musulmano. La rete informatica, l’“internazionale” del web e della musica rock, il fascino dell’Occidente non si ferma. Non è detto per nulla che questo comporti la “democrazia”, la “libertà”, come sperano molte Anime Belle convinte che il nostro sia il migliore dei mondi possibili e che solo un fanatico può opporvisi. Il problema è un altro. Oggi esiste nel mondo una cultura pervasiva e omologante, quella che sopra abbiamo cercato pur superficialmente di analizzare, quella che noi mitteleuropei cerchiamo di modificare con una nuova consapevolezza, che ha un grande potere d’aggregazione, specie su chi nemmeno può immaginare strumenti adeguati per fronteggiarla. È una realtà nuova. Decenni fa, l’Islàm ha dovuto affrontare altre realtà nuove: il cinema, la televisione, i giornali, la motorizzazione, varie forme di occidentalizzazione politica. Ha risposto alla sfida, adeguandosi. Oggi, non può sfuggire al confronto con la globalizzazione e con l’american dream dei suoi ragazzi. In alcuni settori, ha reagito “arroccandosi” nel fondamentalismo. Ma è una reazione perdente: il che resterà vero anche se la sua sconfitta costerà lacrime e sangue a tutti, come non è difficile immaginare. Da parte nostra, sono necessarie risposte nuove, originali, coraggiose, positive, anche esperienze nuove per noi stessi. I Cristiani, questo, lo hanno capito almeno da circa mezzo secolo, anche se non vi hanno dato solerte attuazione, perdendo via via l’arma più formidabile a loro disposizione, la radicalità nel nucleo della Fede. I musulmani lo capiranno a loro volta, almeno si spera. Ma oggi ne hanno paura.
Ecco, dunque tracciata un’altra e diversa linea di relazione, assai più problematica, fra popoli cristiani e popoli islamici che anticipa il problema del pluralismo religioso, vero rebus per il millennio appena aperto. La globalizzazione è un fenomeno che vi fa da sfondo.
Da questa linea discendono due ordini di problemi: il primo concerne la gestione del fenomeno immigratorio di matrice musulmana nel medio-lungo periodo, cioè fino a che quei comportamenti globalizzati e globalizzanti non abbiano modificato le convinzioni fondamentali antitetiche degli immigrati islamici.
Non credo di sbagliare se affermo che si tratta di problema politico-culturale in senso stretto, cioè anche di polizia e tecnica di diritto costituzionale e internazionale, proprio perché di natura transitoria e fattuale, vale a dire di governo dell’emergenza temporanea. Problema grave, senza dubbio, ma comunque passeggero, dominabile se affrontato con intelligenza.
Il secondo problema mi sembra più serio, anche se meno appariscente e più lontano: culture come quella cinese, priva di religiosità e para-mafiosa, o culture e poteri mafiosi come quelli russi e balcanici, che posseggono gli strumenti culturali per affrontare il fenomeno globalizzatore né più né meno che noi, ma che si giovano di “ordinamenti” antitetici e più agili rispetto ai nostri, questi sì negatori in radice delle nostre istituzioni democratiche, del nostro concetto di libertà, dei principi, valori e senso del Cristianesimo, costoro tutti, mi chiedo, che atteggiamento verranno ad assumere nei nostri confronti? Non è, per caso, che stiamo sbagliando nemico? Nemico vero, intendo, in quanto totalmente sconosciuto ma aggressivo oltre ogni limite.
Con tutto questo, ancora una volta e a maggior ragione, io credo, la soluzione dei problemi che ci stanno davanti sta nella forza interiore dei nostri animi, che, se esistente a sufficienza per l’impresa, deve potersi esprimere in conseguenti atti politici necessariamente innovativi, di disciplina della situazione contingente e di attuazione di nuove istituzioni e strutture, sostitutive di quelle di colpo divenute decrepite, in quanto risalenti a esigenze e abitudini sociali drammaticamente non più attuali, forze, strutture ed istituzioni che dovranno, secondo me, indirizzarsi sulla via che ho più sopra indicato.
Intanto, ma potrebbe essere soltanto un pannicello caldo, suggerirei di incamminarci con diplomazia e decisione sulla strada delle intese complessive con le “nuove” religioni delle comunità, nessuna esclusa, che, senza regole, si installano sul nostro territorio, obbligandole severamente ad accettare, condividere ed osservare tutti, ripeto tutti, i principi e i valori fondanti la nostra civiltà, pur se non mi nascondo che una tal pretesa significherebbe snaturare nel profondo molte di quelle credenze religiose, e quella islamica in particolare, e potrebbe essere foriera di ulteriori gravi problemi.
Credo, tuttavia, che un soggetto sociale debba essere con rigore in ogni caso tutelato: la famiglia, nella sua formazione e nella sua vita.
È del tutto inammissibile che un italiano che si innamori di un’islamica e voglia sposarla con rito civile debba convertirsi all’Islam. È questa, infatti, la condizione che viene posta dalle ambasciate e dai consolati dei paesi islamici per rilasciare alla nubenda il nullaosta alla celebrazione del matrimonio. È contrario ai principi costituzionali inchinarsi alla sharia, costituendo tale atteggiamento atto di sottomissione a legge estranea al nostro ordinamento, per di più affetta con molta probabilità dal bacillo dell’ideologia. Si tratta di un diktat di natura religiosa che collide con le nostre norme fondamentali.
È del pari inaccettabile la situazione con cui si devono misurare le cittadine italiane quando sposano un islamico, allorché spesso si trovano a dover affrontare situazioni poligamiche pienamente legittime per il marito. Le uniche condizioni per contrarre matrimonio tra un cittadino italiano e uno straniero devono essere quelle stabilite dalle leggi del nostro Paese.
19. Conclusione.
Siamo di fronte a un duello epico, soprattutto in ragione delle nostre incapacità e arretratezze, in particolare di spirito e di pensiero, duello nel quale sono in giuoco le sorti della nostra civiltà europea, pur non trattandosi, a mio avviso, di uno scontro di civiltà, e ciascuno di noi deve prepararsi a combatterlo al meglio, con tutte le sue forze, specie quelle derivanti da convinzioni religiose, spiritualità, cultura e intelletto, da solo e insieme agli altri membri delle rispettive comunità di appartenenza, da soli e come popolo o popoli, senza voler intraprendere nuove crociate ma con la consapevolezza della gravità del momento storico presente.
Il secolo appena trascorso, a partire dalla Prima guerra mondiale con le sue mostruose stragi, ci ha insegnato che anche le civiltà sono mortali: prima vivevamo in un universo in cui l’individuo poteva morire ma l’insieme a cui egli apparteneva – la nazione, la classe, l’umanità intera – si riteneva fosse immortale, assicurando quasi all’individuo stesso un senso di eternità. Oggi non solo l’esistenza di una civiltà, ma pure la sua stessa essenza, è a rischio, poiché l’uomo si è dimostrato capace di barbarie tali che non stupirebbe fossero un giorno in grado di sopprimere l’intero consorzio umano. E la morte dell’umanità è la morte di Dio: ricordiamoci che, se dopo la Prima guerra mondiale l’Europa si scopriva mortale, conservando però “l’idea dell’uomo”, dopo Auschwitz ed i gulag si ha un taglio irreversibile nella nostra storia, un atroce salto di qualità nella negazione dei principi, valori e senso umani, la negazione stessa dell’uomo, e, quindi, di Dio. «Vivere come se Dio non esistesse», per citare le parole di Sua Santità Giovanni Paolo II e del Suo fido e grande teologo, Padre Joseph Ratzinger, è oggi il tratto saliente dei popoli europei, che fanno a meno della fede.
Ciò che è impensabile in ogni altra civiltà esterna al Vecchio Continente, il quale vive sì nella prosperità e nella forma della democrazia, ma al quale manca l’afflato religioso, lo Spirito divino, per dirla in termini cattolici. E con ciò viene a mancare la speranza per il futuro.
A causa di questa mancanza neppure più siamo in grado di giudicare il male a partire dal bene, ritenendo cioè essere male ciò che va contro il bene comune, quindi, giudicando il male in funzione del bene, come accade dappertutto, ma emettiamo giudizi a partire dal male, e, quindi, non ricerchiamo più il bene ma il meno peggio: l’esperienza del male è quella fondamentale per l’Europa di questo XX secolo, e con tali presupposti, lo dico da laico credente quale sono, se non si cambia in fretta, non credo che si andrà molto lontano. Lo ripeto, noi stessi Europei abbiamo sperimentato la capacità umana di commettere barbarie in grado di sopprimere l’intera umanità, come dicevo dianzi, non soltanto le civiltà, e sappiamo che ciò viene consentito allorché non si è più in grado di rimanere aggrappati alle proprie convinzioni più profonde, ricevendo così la forza di opporsi a poteri che, spesso, sono soltanto apparentemente soverchianti. E ora, ne dobbiamo avere contezza, per la nostra stessa debolezza, potrebbe toccare a noi tutti europei fare l’esperienza di tale possibilità. Dio non lo voglia!
Per le altre considerazioni conseguenti, di ordine sociale e sociologico, giuridico, istituzionale e politico, faccio riferimento alle precedenti relazioni degli altri oratori, soltanto lamentando l’assenza di almeno qualche accenno al problema dell’incompatibilità del nostro sistema bancario con la cultura islamica, in cui, almeno in teoria, l’interesse sul capitale è proibito.
Io, per parte mia, cattolico laico che cerca di mantenersi fedele al proprio Credo, con tutti gli errori e le debolezze della natura umana, non posso che sollecitarVi a ripensare il vostro rapporto con la nostra religione, il vostro essere Cristiani, e cattolici in particolare, se lo siete, in ogni campo, da quello della vita di ogni giorno a quello politico, risvegliando nei vostri cuori la scintilla dell’annuncio di Gesù, e risvegliandola anche nel cuore di chi vi sta vicino, preti compresi, anzi, prima di tutti, affinché anche voi possiate dire, con Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», come hanno fatto i nostri avi.
Convinzione sulla quale hanno fondato la nostra civiltà, perché, vedete, confermato dalla nostra Fede, «lo Spirito della verità ci guiderà verso tutta la verità» (Giovanni 16,13).
Se non siete credenti, valutate liberamente e criticate con forza le mie considerazioni, chiedendovi nel contempo, però, quale altro mezzo di correlazione, comprensione e composizione fra i fenomeni a tema vi sia all’infuori dell’insieme dei principi, valori e senso traibili dal Cristianesimo. Cristianesimo che, in ogni caso, è parte fondante anche del Vostro sistema culturale e logico. Da laici onesti, non potete ignorarlo.
Vi ringrazio per la paziente attenzione.
Prof. Avv. Francesco Giuseppe Nosari