Come cambia nel tempo il comune senso del pudore? E’ quasi stupefacente come rileggendo alcuni tratti di una storia non poi così distante da noi ci sembri di essere lontani un millennio.
Oggi nel leggere certe cronache ci viene quasi immediatamente da pensare ad un film bianco e nero o ad alcune foto color sepia… ad un modo di fare trogloditico se non animalesco e ad una pubblica opinione da “uomini delle caverne”. Nulla di tutto questo … ci troviamo niente di meno che a distanza di cinquant’anni da oggi. Nemmeno una vita. (a cura di Federico Rossi)
Ecco, quindi, cosa ha raccontato la ricercatrice bergamasca Tosca Rossi in una intervista del giornalista Purcaro e rilasciata per il quotidiano Il Giorno:
“Le case chiuse come si sa, furono… chiuse nel 1958, con la Legge Merlin. A Bergamo ufficialmente erano due: una in Città Alta, in via San Lorenzo (in edifici oggi abitazioni private); l’altra era nella zona di Borgo Palazzo, in via Vivaldi, in un villino dove oggi c’è un centro anziani. «Ma nel periodo sotto la dominazione veneta, oggetto del mio studio – spiega Tosca Rossi – la casa di tolleranza, gestita dal Comune e data in appalto con tanto di gare, era nella vicinia di San Michele all’Arco, dietro l’omonima chiesa sconsacrata, in un fabbricato oggi scomparso. E poi c’era anche la cosidetta “Ca’ del Pecàt”, un edificio tutt’ora esistente, vicino all’episcopio».
E le… libere professioniste?
«C’erano anche quelle. Esercitavano in casa. Anche nei borghi. Per cui l’offerta copriva tutto il territorio cittadino. Erano tollerate anche se, a volte, finivano dritte nei postriboli pubblici. E poi c’era via Boccola, un luogo di malaffare dove molte adescavano. Un ghetto, quasi. Sconsigliato alle dame e alle loro ancelle. Le prostitute lo frequentavano anche perchè solo lì, alla fonte della Boccola, potevano lavarsi. L’acqua pubblica era loro proibita».
Il rischio per le ragazze di finire nel giro era quindi rilevante?
«I Luoghi del soccorso e i Luoghi Pii delle Dimesse servivano proprie per aiutare orfane e vedove a non finire in strada. C’era anche luoghi che ospitavano le ragazze di brutto aspetto, che nessuno voleva maritare»
La Bergamo veneta tra ‘400 e ‘700 era dunque una città molto colorita..
«Infatti, Bergamo era una città di frontiera della Repubblica di San Marco, dunque era frequentata da contrabbandieri, viandanti, soldati. I bordelli quindi avevano buona clientela. Basta guardare la durata degli appalti: solo cinque anni!»
Conosciamo anche i nomi di queste prostitute?
«Più che altro conosciamo i soprannomi. Gli Estimi delle Vicinie del 1498-1499 citano, per esempio, Semperbona, Maria dicta “Bonina”: i commenti sono superflui. Alcune di loro venivano definite “casalenghe”»
Su questo argomento lei ha svolto uno studio molto meticoloso: sulla base di quali documenti?
«Cronache coeve come quelle di Donato Calvi, Gianbattista Angelini, Celestino Colleoni e altri, che però pochissini storici hanno analizzato sotto questo aspetto».
Oltre a quella dei bordelli, lei si è occupata anche della storia dei luoghi di pena.
«Un intreccio di morte, dolore e morbosità. Dalle carceri medievali sotto la Torre civica fino a quelle di sant’Agata. Vi sono inoltre i luoghi di esecuzione capitale: nel Medioevo sulla pubblica piazza, in epoca napoleonica sugli spalti della Fara, tramite l’impiccagione. Nei miei tour mostro anche il percorso che i condannati a morte facevano dal carcere di san Francesco sino alla Fara».
Le visite guidate da lei organizzate incontrano il favore del pubblico?
«Sì, devo dire che hanno avuto un buon successo. Infatti ne riproporrò un’altra il prossimo 5 settembre. Bergamo, in realtà, presenta molti aspetti interessanti che sono rimasti sconosciuti ai più. In un’altra mia ricerca, dal titolo “ Urbs picta”, dimostro ad esempio come un tempo Bergamo fosse una città dalle facciate tutte dipinte»
Come nasce questa sua passione per la storia cosiddetta “minore”?
«Fin da piccola mi ha sempre interessato l’aspetto misterioso, inedito, delle cose. E poi sono assolutamente convinta che non si debba mai censurarsi nella proposta turistica. D’altronde, in diverse città d’Europa questo è la norma»”