DOMENICA XXVI ANNO A
Dal Vangelo secondo Matteo, 21, 28-32.
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Commento
Nel capitolo 21 Matteo mostra come il confronto tra Gesù e le autorità giudaiche si faccia sempre più serrato e si inasprisca. In particolare, dopo una discussione con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo sulla sua autorità (Mt 21,23-27), Gesù pronuncia tre parabole tutte incentrate sul rifiuto, da parte dei capi d’Israele, dell’offerta di salvezza. La prima è quella dei due figli, solo in apparenza semplice, ma in realtà la parabola vuole delineare la complessità dell’animo umano, i cui no e sì e non si esauriscono nell’atto iniziale, ma sono processi lunghi da decifrare. Gesù si riferisce all’atteggiamento delle autorità ebraiche, le quali sono sicurissime di fare la volontà di Dio. Nella loro presunzione pensano di essere nel giusto; in realtà sono in contrasto con la volontà di Dio.
Gesù lascia intravedere questo inganno in questa breve parabola. Le parole del figlio che subito obbedisce sono esattamente: “Io, Signore!” e non, come nella traduzione corrente: “Sì Signore!”. Colpisce la risposta così formulata: il primo figlio mette avanti se stesso, il proprio io. Sembra più preoccupato di far bella figura, di mostrarsi come figlio obbediente ed esemplare rispetto all’altro che oppone il rifiuto. La prontezza dell’obbedienza non viene perciò dall’amore e dal rispetto per il genitore, ma dall’ambizione di apparire come il più bravo. Questa motivazione impedisce di capire la fatica e l’impegno richiesti dal padre. Allora capita che si riduca sensibilmente il contenuto di ciò che è richiesto, per ritenersi obbedienti. Ci si illude di esserlo semplicemente perchè si compie qualche gesto o semplicemente perchè si è andati nel campo, ma ci si guarda bene dal chinare la schiena e lavorare. Ci si accontenta delle apparenze e si elimina il rimorso. Magari si giunge alla presunzione di sapere meglio del padre ciò che è necessario fare per coltivare la vigna e si ignorano i suoi avvertimenti. Se si obbedisce principalmente per fare bella figura, l’equivoco inevitabilmente si manifesta e si trasforma in aperta disobbedienza.
Il figlio che dice di no, ha dalla sua il pregio della sincerità, perchè avverte la fatica di un impegno al quale non è pronto. E’ riflessivo, perciò avverte più distintamente il torto fatto al padre. Consapevole della propria colpa si pente ed avvia un processo di decisione più genuino. Sopratutto si mette in discussione e questo lo rende disponibile a privilegiare ciò che il padre desidera. La sua decisione poggia su un fondamento più stabile, così riesce a portare a compimento ciò che gli viene ordinato. Dice di sì fino in fondo con fatica ma con maggior consapevolezza, sostenuto dall’amore un amore sincero, non semplicemente dichiarato e fondato sulla riconoscenza.
Queste considerazioni vanno applicate al nostro rapporto con Dio, che esige la massima disponibilità e fiducia per saper mettere in discussione noi stessi e cercare di compiere nel modo migliore ciò che la parola evangelica esige. Mai sentirci perfettamente appagati, ma nutrire il desiderio di una fedeltà che sa discernere nelle varie circostanze il necessario da compiere e lo fa con coraggio.