DUBBI CONTRATTUALI
Quando si parla di contratto, giornali e notiziari citano quasi sempre la rescissione. “Il calciatore Tizio Caio ha rescisso il contratto con la Virtus F.C.”, oppure “è stato rescisso il contratto tra Sempronio e la casa discografica X”. In realtà, la maggior parte delle volte la parola rescissione viene usata in modo errato, spesso per sostituire la più comune risoluzione del contratto. Ma che differenza c’è tra questi due istituti?
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La rescissione
L’art.1447 del Codice Civile, stabilisce che il contratto con cui una parte ha assunto un’obbligazione a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte che si è obbligata.
Innanzitutto, il 1447 evidenzia il fatto che l’istituto della rescissione può essere fatto valere solamente dalla parte lesa, ma solo quando questa ha stipulato volontariamente un contratto iniquo per motivi di forza maggiore: se non l’avesse fatto, si sarebbe cagionato un danno fisico grave o la morte di una persona. Questo pericolo, si sottolinea, deve essere attuale, ovvero contingente nel momento della conclusione del contratto. Infine, il pericolo doveva essere noto alla controparte, la quale non può subire alcun tipo di rescissione se ha agito in buonafede.
Ma l’art.1448 pone un’altra possibilità in cui si può far ricorso alla rescissione, overo lo “stato di bisogno”. Codice alla mano, se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di biogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto. Ma che cosa s’intende per “stato di bisogno”? Come succede spesso nel diritto, non c’è una risposta certa e i giuristi si azzuffano in continuazione anche su questa questione. Stando alle parole del Codice, si può però desumere che con questa espressione si fa riferimento alla sfera economica e finanziaria della persona, la quale può essere portata a stipulare un contratto iniquo per far fronte a situazioni economicamente difficili. Ma, anche qui, come si fa a quantificare il peso di questo stato di bisogno?
In linee generali, la legge stabilisce che la sproporzione deve eccedere la metà del valore della prestazione e che la rescissione non può essere fatta privatamente, bensì deve essere deliberata dall’autorità giudiziaria. Inoltre, l’art.1449 avvisa che l’azione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto, mentre il 1452 si premura di rassicurare il terzo in buonafede che, in forza del principio dell’affidamento, è insensibile all’azione di rescissione.
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La risoluzione
L’art.1453 del Codice Civile stabilisce che, nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. Questo vuol dire che, se il vostro contraente non esegue esattamente la prestazione che avevate concordato, voi potete esigere che la esegua oppure – se tale ritardo ha reso inutile la sua esecuzione – di risolvere il contratto.
Con la risoluzione, il debitore deve risarcire il danno sia a riguardo dell’interesse negativo (ovvero le spese che non avreste sostenuto se non vi foste impegnati e l’eventuale lucro cessante) che dell’interesse positivo (ovvero i guadagni che avreste ottenuto se ci fosse stato un esatto adempimento). Se per caso voi creditori avete già sostenuto la vostra prestazione, il debitore è tenuta a restituirvela in forma specifica (ovvero ripetervi esattamente la cosa o il diritto) o, se non è possibile, per equivalente (cioè con una quantità di denaro corrispondente al valore). In ogni caso, però, voi creditori avete l’onere della prova, cioè dovete dimostrare che avete avuto un danno grave, che questo danno è derivato dall’inadempimento e che la causa dell’inadempimento è imputabile all’altro contraente.
Il primo comma dell’art.1456, infine, stabilisce che i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite: è la fattispecie della “clausola risolutiva espressa”.
Il contratto si può altresì risolvere per “impossibilità sopravvenuta”: è il caso dell’art.1463. Quando l’oggetto della prestazione diventa impossibile dopo la conclusione del contratto, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta. Questa impossibilità – specifica l’articolo seguente – può anche essere parziale: in questo caso non si ha la risoluzione, ma l’altra parte ha il diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto.
L’ultimo caso in cui è prevista la risoluzione è disciplinato dall’art.1467 e riguarda principalmente i contratti ad esecuzione continuata o periodica. Quindi, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, a meno che l’altra non conceda dei “rimedi” per pareggiare il valore delle reciproche prestazioni.
Alessandro Frosio