In occasione dell’arrivo a Bergamo dell’urna di Giovanni XXIII propongo alcune riflessioni sul discorso della luna, pronunciato da papa Giovanni la sera dell’11 ottobre 1962.
In occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962) Giovanni XXIII pronunciò due discorsi: Gaudet Mater Ecclesia e il famoso Discorso della luna. Questo voleva essere un semplice saluto rivolto ai fedeli di Roma che avevano organizzato una grande fiaccolata in piazza S. Pietro. Il primo intervento aveva un carattere solenne e ufficiale; pronunciato in latino, fu rivolto agli oltre 2000 vescovi che presero parte ai lavori del Concilio e si caratterizzava per un denso contenuto teologico-pastorale, in cui erano indicate le finalità assegnate all’assise conciliare. E’ un discorso che ha fatto la storia e figura tra i più importanti interventi papali degli ultimi secoli. Mentre esso è oggetto di studio tra gli addetti ai lavori, nel cuore della gente è rimasto indelebile il discorso serale, il quale è ugualmente importante. Giovanni XXIII in esso ha condensato i temi ispiratori della sua vita e attività di Pastore, usando un linguaggio semplice e alla portata di tutti, ma per nulla banale. Quella sera dell’11 ottobre non era previsto nessun intervento da parte del papa, ma davanti allo spettacolo della piazza S. Pietro, rigurgitante di circa 200.000 persone con migliaia di fiaccole, Giovanni XXIII non potè sottrarsi al dovere di un saluto. Dimostra la sua non comune abilità nello stabilire una comunicazione immediata con la folla, favorito nell’occasione dalle profonde impressioni provate nella giornata di apertura del concilio. Attraverso la familiarità delle sue parole il papa rivela il suo stato d’animo e nello stesso tempo invita la folla a condividerlo.
Esordisce rilevando che la convocazione del concilio ha costituito un’eccezionale manifestazione di fraternità universale, che fa sperare nel rafforzamento dell’unità all’interno della Chiesa e in suo irradiamento nel mondo: «Gli è che noi chiudiamo una grande giornata di pace; sì di pace. Gloria a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà». Richiama i principi basilari di una vita autenticamente ispirata alla carità, già tante volte ripetuti, ma che, enunciati in questa particolare occasione, assumono contemporaneamente il tono confidenziale di un’esortazione fraterna e insieme quello autorevole dei momenti solenni dell’esercizio dell’autorità papale.
Vogliamo sottolineare tre punti.
1. Egli ricorda innanzitutto il principio che lo aveva guidato fin dalla giovinezza: l’attribuzione di ogni merito a Dio e la scarsa considerazione di sè stesso. Ciò che sorprende è che in lui tale stato di umiltà non ha favorito un atteggiamento di passivo disimpegno, ma di coraggio nel prendere decisioni al limite della temerarietà, come quella di convocare un concilio ecumenico. Oggi sappiamo che tale iniziativa era stata presa in considerazione sia da Pio XI che da Pio XII, ma ambedue avevano rinunciato per difficoltà e problemi che apparivano insormontabili. Quale insegnamento per l’uomo di oggi, che, preoccupato della propria immagine e sicuro di se stesso, getta le armi alle prime difficoltà e cade nell’apatia e nello scetticismo!
2. Questo motivo si intreccia con il primato della dimensione fraterna sul principio gerarchico, che viene opportunamente ridimensionato attraverso il richiamo alla paternità divina, da cui deriva e a cui è totalmente relativo. Il ministero sacerdotale è a servizio dell’uomo chiamato ad essere Figlio di Dio. La dignità più alta è quest’ultima, non quella conferita dal sacramento dell’ordine, che ha un carattere ministeriale e di servizio! Questa intuizione spiega lo stile paterno e insieme fraterno di Roncalli.
3. Il terzo motivo si potrebbe definire la sua regola d’oro, quella del primato accordato ai motivi di unità rispetto a quelli di divisione, su cui papa Giovanni ha impostato fin dalla giovinezza le sue relazioni umane.
«La mia persona non conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto Padre per volontà di Nostro Signore Gesù. Ma tutt’insieme, paternità, fraternità, è grazia di Dio. Tutto, tutto! Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così; e nell’incontro proseguiamo a cogliere quello che unisce, lasciando da parte, se c’è, qualche cosa che potrebbe tenerci un poco in difficoltà. Fratres sumus ! [Siamo fratelli]».
Egli si abbandona a confidenze con i fedeli e non ha timore di rivelare le proprie attese riguardo al concilio. Non avendo dato un programma preciso, stabilito nei minimi dettagli, ma solo orientamenti generali, cui però i padri devono ispirare il proprio lavoro, non nasconde di essere lui pure in attesa degli eventi futuri, che, sostenuto dalla fiducia in Dio, definisce a priori come salutari per la Chiesa e di riflesso per l’intera umanità:
«Il Concilio è cominciato e non sappiamo quando finirà. Se non dovesse concludersi prima di Natale […] sarà necessario un altro giorno … E perciò ben vengano questi giorni: li aspettiamo in grande letizia».
In questi momenti di immediata comunicazione tra Pastore e fedeli, Giovanni XXIII trova le parole che toccano il cuore e rendono perfettamente l’intensità del suo affetto di padre-fratello:
«Tornando a casa, troverete i bambini, date loro una carezza e dite: Questa è la carezza del Papa. Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specialmente nelle ore della mestizia e dell’amarezza».