DOMENICA XXVII TEMPO ORDINARIO
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)
11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Commento
Il racconto dei lebbrosi guariti, di cui uno solo ritorna a ringraziare, è emblematico della vita umana. Non si tratta solo di rilevare il mancato dovere della riconoscenza, ma di comprendere anche la funzione e il significato del dono, il cui scopo è quello di orientarci alle origini della vita. Nove dei dieci guariti compiono le pratiche legali – toccava ai sacerdoti rilasciare la dichiarazione dell’avvenuta guarigione – per essere riammessi nella società. Il loro torto è quello di fermarsi alla costatazione della guarigione e non risalire a Gesù che ne ha fatto dono. Non basta essere semplicemente guariti, ma occorre essere salvati, come l’unico che è tornato a ringraziare.
Senza che ce ne rendiamo conto anche noi ci comportiamo alla maniera dei nove. Ne abbiamo una prova palese, quando siamo guariti da una malattia. Magari sentiamo il dovere di ringraziare i medici e tutto finisce qui. La guarigione ha un significato più profondo. La malattia ci fa sperimentare la fragilità della nostra salute, la possibilità della morte; la guarigione ottenuta ha un significato molto più ricco, che è necessario cogliere. Ci è impossibile se la consideriamo come qualcosa che ci è dovuto, un diritto che deve essere comunque soddisfatto. Concentrati su noi stessi non sappiamo percepire ciò che ci è stato regalato. La guarigione ci rimanda alle origini della vicenda umana: lo sviluppo della scienza e dell’assistenza sociale, l’intelligenza e la dedizione dell’uomo, gli elementi della natura, la loro origine nel Creatore. Ogni dono accende la speranza e ci stimola a salire alla sorgente della vita e al suo mistero, che sta nell’amore di Dio. Ogni dono è sacramento, segno di qualcosa di più grande, da cui proviene. Da qui la necessità di riconoscerlo, per rendere grazie, innanzitutto ai nostri fratelli immediati autori, ma anche a Colui che sta all’origine di tutto. Su questo atteggiamento poggia la nostra speranza, la nostra serenità, la nostra gioia, perchè vediamo questo dono, ogni dono come l’anticipazione e la promessa di qualcosa di più grande, di una vita senza fine.
Perciò si comprende come grandemente deleterio è il consumismo, con il suo programma: mangia e sputa, mangia e sputa senza fine. La serenità si fonda sul sentirci sazi, appagati, spensierati; ciò disumanizza, perchè ci rende insaziabili egoisti, chiusi in noi stessi e sempre scontenti.
Chi sa percepire la logica del dono, che lo innalza al cielo, si fa dono lui stesso agli altri. Prendiamo l’esempio di S. Francesco, appena ricordato cinque giorni fa. Quando ha saputo contemplare il creato come Dono di Dio e incontrato Gesù, è andato dai lebbrosi per aiutarli ed assisterli. Non solo fatto un servizio a loro, ma addirittura ha saputo vedere in essi un Dono, una Fortuna, invece che il culmine del male e dell’abiezione. quale era allora considerata la lebbra. Presso di loro ha imparato la povertà, la generosità, la compassione verso le sofferenze, a diventare cioè un uomo nuovo, un uomo vero! Come dice nel suo Testamento, aveva trovato la felicità: «Ciò che mi sembrava amaro [cioè servire i lebbrosi] mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo».