Accadde in un afoso e soleggiato mercoledì di luglio: al rientro dal lavoro, esausto, iniziai a scorrere i programmi televisivi, ricchi di spot in cui venivano proposti pacchetti turistici, crociere e contratti di locazione di case estive a prezzi pressoché stracciati. Non avevo ancora progettato le mie vacanze ma ero conscio di essere alla ricerca di qualcosa di diverso dalle classiche ferie estive all’insegna del divertimento e del relax: avevo bisogno di affrontare un’esperienza nuova, di confrontarmi con una realtà diversa da quella in cui vivevo tutti i giorni e alla quale mi stavo assuefacendo.
Fu così che mi ritrovai a navigare attraverso le pagine del sito web delle Missionarie Secolari Scalabriniane (http://www.scala-mss.net/), Istituto secolare di vita consacrata sorto a Solothurn (Svizzera) nel lontano 25 luglio del 1961 e dedito all’assistenza ai migranti. Qualche anno fa, quand’ero ancora uno studente universitario, avevo partecipato ad alcuni loro incontri.
Sul sito web lessi altresì che, al fine di approfondire e di diffondere la conoscenza di certe tematiche legate al fenomeno delle migrazioni, per il periodo 01/08/12 – 13/08/12 era stato organizzato un campo estivo cui avrebbero potuto partecipare giovani universitari provenienti da tutto il mondo.
Da credente, quale sono, considerato che già da qualche mese la c.d. “vignetta” grigia delle autostrade svizzere si stagliava contro il parabrezza della mia automobile e che, inoltre, non mi sarebbe affatto dispiaciuto rivedere le belle montagne svizzere, decisi di inviare alle missionarie la mia domanda di partecipazione all’evento fino al giorno 08/08/12. Benché la mia carriera di studente universitario fosse finita già da qualche anno, la richiesta fu sorprendentemente accettata.
Mi presentai (puntualmente in ritardo) alle otto della sera di sabato quattro agosto al Centro di Spiritualità Scalabriniano di Solothurn, dinanzi al civico n. 25 della Baselstrasse, quando tutti gli altri campisti e le missionarie stavano già cenando. Ciononostante, fui calorosamente accolto da Agnese, missionaria trentenne originaria della Sicilia: una mia vecchia e stimata conoscenza. Venutami incontro e chiestomi se io avessi fatto un buon viaggio (domanda cui risposi tranquillamente di sì, dimenticandomi per un attimo delle innumerevoli volte in cui ero riuscito a perdermi lungo il tragitto), la missionaria mi fece entrare in quello che, mi venne successivamente spiegato, era un ex convento di suore, di (relativamente) recente costruzione e realizzato a mò di chiostro.
All’interno i muri grezzi, composti di mattoni rossi a vista intervallati da colonne di cemento, erano tutti adornati di fotografie raffiguranti i sorrisi di una miriade di ragazzi che avevano solcato quegli stessi corridoi che io stavo attraversando: l’ambiente circostante sembrava essere quasi familiare.
Entrato nella camera che mi era stata assegnata, conobbi subito quello che sarebbe stato il mio compagno di stanza per i successivi quattro giorni: Henry, un ragazzo di ventidue anni proveniente dalla Repubblica del Congo. Di media altezza, fisico slanciato, portamento sicuro, sguardo penetrante, molto curato nel proprio aspetto (incluso il taglio quasi perfetto del proprio pizzetto), il mio compagno di stanza si presentò con una calorosa stretta di mano, invitandomi a seguirlo mentre stava tornando nella saletta in cui tutti stavano desinando. Entratovi, vidi una ventina di ragazzi, provenienti dai più svariati angoli del mondo, seduti attorno a grossi tavoli e che, mentre mangiavano, chiacchieravano amabilmente l’uno con l’altro (in inglese, francese, tedesco, polacco, arabo, tigrinya, eccetera). Ripensando per un poco alle brutte notizie inerenti ai vari conflitti internazionali sparsi per il mondo, raccontate quasi quotidianamente con aria austera dai giornalisti, la scena che io vidi mi sembrò alquanto surreale, anche se non innaturale.
Fui invitato a sedere al tavolo in cui stavano cenando alcune missionarie unitamente al responsabile del Centro di Spiritualità di Solothurn, il Missionario Scalabriniano Padre Gabriele Bartolomai, originario della città di Piacenza. Come accadde anche quando l’incontrai per la prima volta qualche anno prima, rimasi nuovamente stupito dell’energia che promanava da quell’ottantenne i cui occhi, seppur aventi quasi un’intera esistenza da narrare, erano vispi come quelli di un bambino di cinque anni e trasmettevano una passione per la vita e per il proprio credo che suscitava in me un’ammirazione provata raramente per una persona.
Sedutomi a tavola, Padre Gabriele, dopo avermi posto qualche domanda sul mio passato recente, mi afferrò la mano e, guardandosi attorno, con gli occhi lucidi, mi disse: “Guarda Giovanni, guarda che bello. Tutti questi giovani, pieni di energia e così diversi fra loro, si sono riuniti qui in cerca dell’altro….in cerca di Dio. Questo è un segno di Dio”. Guardandomi attorno, effettivamente, percepii sui volti dei miei commensali il piacere e il gusto dell’incontro con l’altro e della curiosità che ne deriva: notai che doveva essere certamente del mio stesso avviso anche Henry, intento a “broccolare” (fare il cascamorto) con un gruppetto di ragazze polacche.
Terminata la cena, assistemmo a una piccola riunione di benvenuto con le missionarie, le quali ci illustrarono come si sarebbe svolto il campo estivo.
Anzitutto, prendendo ad esempio ciò che fecero anche gli apostoli (cfr Atti degli Apostoli, 4-32), ciascuno di noi avrebbe dovuto contribuire in forma anonima alle spese comuni (vitto, alloggio, eccetera), lasciando in una scatola (ribattezzata per l’occasione “scatola della comunione dei beni”) ciò che egli / ella avrebbe ritenuto giusto. Secondariamente, ci fu illustrato quello che sarebbe stato uno dei temi principali del campo estivo oramai iniziato: la Fede in Dio, raccontata anche attraverso gli occhi di alcuni migranti. Inoltre, fu spiegato che tutti i campisti avrebbero dovuto considerarsi come degli atleti olimpici, arrivati a Solothurn per allenarsi e per dare il meglio di se stessi, crescendo e aiutandosi l’uno con l’altro. Conoscendo i serrati ritmi di lavoro delle missionarie, chiesi subito a una di loro dove fossero state parcheggiate le autoambulanze, pronte a intervenire nel caso in cui qualche atleta collassasse durante gli esercizi: mi fu “fantozzianamente” rivolto un sorriso in risposta al mio inquietante (ma, ritengo ancora a oggi, fondato) quesito.
Dopo questo breve incontro, io e gli altri campisti ci dirigemmo verso le nostre stanze, alla ricerca di un po’ di riposo.
Fu in quell’occasione che conobbi meglio il mio compagno di stanza Henry. Persona molto curiosa, da bravo studente di filosofia presso l’Università Cattolica di Milano pensò subito di mettermi a mio agio domandandomi cosa ci facesse un praticante avvocato trentenne come me in uno luogo come quello. Come non dare torto al povero Henry: la mia presenza al campus avrebbe potuto passare inosservata come quella di un albero di Natale in mezzo al deserto del Sahara.
Gli raccontai, quindi, del mio percorso di vita, caratterizzato dalla costante ricerca di un confronto con persone portatrici di differenti culture, idee, visioni del mondo, religioni. Non potei non parlagli anche della mia esperienza in Malawi effettuata nell’estate dell’anno 2011: gli raccontai di come fossi rimasto colpito dalla dedizione e dall’impegno di tutti i volontari (europei e africani, senza alcun distinguo) presenti nei vari centri di aiuto alle popolazioni locali che avevo visitato. Tuttavia, anche a fini provocatori, gli manifestai altresì tutte le mie perplessità circa i progetti avviati in Malawi dalle varie associazioni italiane no – profit: molti di essi mi erano sembrati paragonabili a delle vere e proprie cattedrali nel deserto, gestite esclusivamente da occidentali (per la maggior parte) e utili soltanto ad aumentare il grado di dipendenza delle popolazioni locali rispetto agli aiuti esterni, togliendo dignità alla gente che non si sentiva, stando a quanto riferitomi da alcuni, per nulla coinvolta. Il mio amico, dopo avere scoperto un velo d’incredulità nei propri occhi, si lasciò andare e mi descrisse il suo punto di vista al riguardo, così riassumibile: “A noi africani non servono cattedrali nel deserto né soldi elargiti dalle varie associazioni caritatevoli. Alla mia gente deve essere data, innanzitutto, una bella svegliata, finendo di permettere ai nostri politici di vendersi per poco e al primo turista che passa di fotografare bambini denutriti per poi farne bella mostra sulle bancarelle occidentali, in cerca di soldi. Ciò non fa altro che togliere alla mia gente quel poco di dignità che ancora le è rimasto. La mia gente deve acquisire consapevolezza di sé, delle proprie origini e delle proprie differenti culture, dotandosi di proprie organizzazioni, familiari e sociali, nonché di regole ferree…basta dormire sugli allori. Occorre rimboccarsi le maniche e lavorare…”. Dopo un’accesa discussione fra me e lui, il mio amico aggiunse: “Vedi Giovanni, la società dalla quale provengo possiede un assetto tribale, il cui fulcro è costituito da un capo – famiglia che, letteralmente, comanda la propria gens. La mia gente, quindi, tende spontaneamente a cercare un capo che imponga a tutti il rispetto di regole ferree e precise. I concetti giuridici di “democrazia” e di “sovranità popolare”, cui tu hai accennato, non sono connaturati alla cultura africana e, comunque, saranno sempre intesi in modo diverso da un africano rispetto anche solo a un europeo. Chi ti dice, quindi, che la “democrazia” sia per definizione lo strumento politico / istituzionale migliore per la popolazione africana? Perché il potere, il comando, devono per forza e aprioristicamente appartenere al popolo o a tutti i membri di un’intera tribù? Il principio di sussidiarietà, di cui voi europei parlate quasi sempre, può essere una gran bella invenzione ma il relativo ambito di validità territoriale non può essere esteso all’intero pianeta, quantomeno non all’Africa”.
La nostra discussione terminò quando sia io sia Henry realizzammo che, oramai, le nostre bocche avevano iniziato a muoversi per semplice inerzia mentre le rispettive menti erano sempre più avvolte dal torpore della stanchezza.
Il mattino seguente iniziarono i veri e propri “giochi olimpici”. Fra incontri a tema sulle migrazioni, canti, messe, visite guidate alla Città e all’Eremitage di Solothurn (unico nel suo genere, in quanto affiancato, a una cinquantina di metri, da un bar frequentato quotidianamente da molta gente, turisti inclusi), i successivi quattro giorni passarono in un baleno. Di tutte le esperienze che vissi durante il mio soggiorno, desidero qui raccontare due episodi che mi colpirono particolarmente.
Il primo avvenne in occasione della messa quotidiana celebrata durante il secondo giorno di campo. In Chiesa fu letto un brano della Genesi (18, 1-10) avente ad oggetto l’apparizione da parte del Signore ad Abramo presso le Querce di Mamre. Nello specifico, l’episodio in questione costituisce una delle tappe del cammino (inteso nel senso sia materiale sia figurato del termine) di fede in Dio condotto da Abramo e descritto nei primi venticinque capitoli (su un totale di cinquanta) del Libro della Genesi. Dopo essersi spostato, all’incirca, attraverso i territori degli attuali Stati dell’Egitto, di Israele e della Siria e avere vinto, grazie alla propria fede in Dio, diverse battaglie contro i propri nemici, si narra che Abramo vide apparire il Signore dinanzi alla propria tenda. Lo stesso si manifestò sotto forma di tre uomini che, comparsi improvvisamente al cospetto di Abramo, con fare parecchio autoritario accettarono di farsi servire da lui, senza nulla domandare. La prima parte dell’incontro ebbe termine quando il Signore annunciò, prima ad Abramo e poi alla moglie Sara, la nascita di un loro discendente, tanto desiderato ma mai avuto fino a quel momento.
Durante la lettura del brano (tradotto simultaneamente nelle varie lingue conosciute dai ragazzi) e, successivamente, la relativa spiegazione da parte di Padre Gabriele, vidi gli occhi dei campisti accendersi improvvisamente di speranza mentre, al contrario, la mia schiena era attraversata da un forte brivido. Trovai, infatti, parecchio inquietante il modo in cui il brano biblico descrive la scena: un uomo, nel bel mezzo di un querceto, vede improvvisamente apparire dinanzi a sé tre persone, giunte da non si sa dove e in cerca di non si sa cosa. Questi tre uomini, dall’aspetto a dir poco sinistro, senza dire niente, si fanno, dapprima, servire e riverire da Abramo e, successivamente, con tono serio e non troppo amichevole, gli chiedono dove sia la moglie, preannunciando poi a entrambi un lieto evento. La scena che mi raffigurai nella mente era talmente carica di paura che non riuscii neanche a immaginarmi lo sguardo di queste tre persone. Di certo, ciò che stava turbando la mia mente non aveva neanche lontanamente l’aspetto di un’opera d’arte iconografica come poteva essere, per esempio, la “Trinità” di Andrej Rublev.
Mentre tentavo di dare una spiegazione alle sensazioni che stavo provando in quel momento, iniziai a leggere la seconda parte della narrazione dell’incontro fra Dio e Abramo.
Giusto per non smentirsi, i tre uomini “…si alzarono e andarono a contemplare Sodoma dall’alto…”, decidendo poi di scendere verso la città per “…vedere se (ndr, Sodoma e Gomorra) hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido (ndr, fino al Signore)…”. I miei dubbi erano confermati: le tre figure sinistre erano giunte fino a quei luoghi per valutare la possibilità di radere al suolo intere città.
Individuai quello che, a mio avviso, doveva essere uno dei principali significati ascrivibili al brano biblico in questione: il cammino di fede di Abramo aveva incrociato quello del Signore, diretto in quel momento a osservare Sodoma.
Così come narrato nelle Sacre Scritture, incontro a tale destino sarebbero successivamente andati molti altri uomini, incrociando le strade percorse da Gesù, figura alquanto enigmatica. A tal proposito mi venne in mente il racconto del “risveglio di Lazzaro” (Vangelo di Giovanni – 11, 33/44), narrante di un Gesù che scoppiò letteralmente in pianto sia per la morte di Lazzaro che per il conseguente dolore provato dai parenti dell’”addormentato”. Nella mia mente, a questa scena commovente si contrappose subito quella descritta nel Vangelo di Matteo, al passo 15-25: in essa, Gesù dimostrò verso una donna pagana (ossia non credente nel Signore) la stessa durezza e la medesima compassione che un uomo prova quando vede l’altrui cane domandargli del cibo. Gesù, infatti, rispondendo alla richiesta d’aiuto della propria interlocutrice, disse: “…Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini…”.
Turbato da tali interrogativi, continuai a seguire la Messa, al termine della quale le missionarie ci divisero in tre gruppi all’interno dei quali noi campisti avremmo potuto approfondire le tematiche trattate dai testi sacri poc’anzi letti.
Dopo un iniziale silenzio, giustificato, come quasi sempre accade, non dall’assenza di idee da comunicare ma dalla forte paura di esporsi per primi, i ragazzi del gruppo cui fui assegnato iniziarono a scambiarsi opinioni sulle considerazioni espresse da Padre Gabriele. Ad un certo punto, una ragazza, in particolare, nel riferirsi alle scelte compiute da Abramo, disse (in modo molto candido) di stare attraversando un periodo della propria esistenza in cui ella non sapeva cosa fare della propria vita. Io intervenni, suggerendole di mettersi in gioco, di seguire le proprie passioni e di avere il coraggio anche di scontrarsi con la realtà dei fatti, senza tuttavia snaturarsi. Immediato fu l’intervento del mio compagno di stanza Henry, anch’egli facente parte del mio gruppo, il quale, correggendomi, mi rimproverò di avere tralasciato nel mio suggerimento l’aspetto più importante di tutti: coltivare la propria fede in Dio. Per spiegarmi che quanto mi stava raccontando non era la solita frase fatta né intendeva essere un suggerimento di scarsa rilevanza pratica, raccontò brevemente a tutti la storia della propria fanciullezza. Contrariamente a quanto accadde a me, Henry, figlio di un’insegnante, dovette imparare a convivere fin dalla tenera età con la presenza inquietante dei carri armati fuori dalla porta della propria casa. La destabilizzazione politica e la crisi economica in cui il suo Paese era sprofondato a partire dagli anni ’90 fecero sì che i genitori del mio compagno di stanza perdessero il lavoro, iniziando a vivere letteralmente “alla giornata”, ossia nella quotidiana speranza di racimolare abbastanza soldi per poter dare da mangiare ai propri figli almeno ogni sera. Ricordo, infatti, una frase di Henry: “….ci alzavamo alla mattina senza sapere se alla sera saremmo riusciti a mangiare qualcosa o meno….”. A fronte di questa situazione, sia Henry sia i relativi genitori reagirono anche con la preghiera, confidando nel fatto che Dio avrebbe dato loro ciò di cui avevano bisogno per arrivare fino al giorno dopo: anche grazie a tale consapevolezza, tutti loro riuscirono a superare i momenti più difficili delle proprie rispettive esistenze, senza mai soccombere. Fu sempre in quest’ottica che, parecchi anni dopo, Henry visse il momento in cui gli fu comunicato di avere vinto una borsa di studio valida per iscriversi presso l’Università Cattolica di Milano. Il mio compagno di stanza, sostanzialmente, spiegò a tutti quanti che avere fede in Dio è prima di tutto un modo di vivere la propria quotidianità, nutrendo la certezza che ciascuno è accompagnato da Dio lungo il proprio cammino, senza che ciò ingeneri in alcuno una visione superficiale della propria vita, magari accompagnata da qualche vena di superstizione.
Al racconto di Henry seguirono le parole di Helen, ragazza diciassettenne eritrea. La stessa ci raccontò una parte della sua fuga clandestina dal proprio Paese, mentre era diretta verso le coste nord – africane, alla volta dell’Europa. Nel cuore della notte, la clandestina, a bordo di un’automobile, incappò in un posto di blocco della polizia (se non ricordo male, egiziana): l’autista, dopo essersi fermato, alla richiesta degli agenti di poter perquisire la macchina rispose ingranando la prima marcia e dando un repentino colpo d’acceleratore che spiazzò i poliziotti. Dopo avere forzato la postazione, la macchina sui cui viaggiava la ragazza, quest’ultima letteralmente impaurita, fu inseguita per parecchi chilometri dalle forze dell’ordine. La narratrice ci raccontò che anche in quell’occasione, come era accaduto durante molte altre disavventure occorse durante la propria fuga, ella era ricorsa alla preghiera, confidando in un intervento divino che l’avrebbe salvata, se non dalla morte, almeno dall’oblio di una lunga prigionia. Intervento divino o meno, la ragazza riuscì a fuggire dalla polizia.
Dopo quei racconti, seguiti dal silenzio generale, decisi di mettermi un po’ in disparte, rifugiandomi in un angolo dell’ampio giardino che circonda la missione scalabriniana: ero intento a chiedermi che cosa io avessi a che spartire con persone che avevano vissuto in modo così “intenso” sia la propria vita sia la propria fede. Qual’era il significato di tutto ciò? Come avevano fatto Henry ed Helen ad abbandonarsi così tanto alla propria fede? Perché io non sarei mai stato capace di fare ciò? Forse la professione che esercito (quella di praticante avvocato), richiedendomi costantemente la capacità di calcolare fin dal principio ogni possibile mossa della controparte per saperne prevedere le mosse, senza potere lasciare nulla a ciò che viene comunemente definito “caso”, aveva intaccato negativamente la mia fede? Cos’è la mia fede? Cosa significa “avere fede”?
Al riguardo, mi ricordai le definizioni del termine “fede” riportate in un dizionario biblico, letto qualche tempo prima: da una parte, una ricerca della realtà vera e certa come è Dio; dall’altra, la ricerca di un rifugio in Dio, incondizionatamente fedele all’uomo.
Nel tentativo di dare una mia personale spiegazione a tali definizioni, presi la mia bibbia (o, meglio, ciò che ne rimaneva dopo avere rovistato per diversi minuti all’interno dello zaino alla ricerca della copertina, staccatasi dal resto della rilegatura) e iniziai a leggere proprio quei brani sacri che mi erano venuti in mente durante la messa. Scoprii che la soluzione dei miei interrogativi era contenuta sia negli antefatti sia nelle parti finali dei racconti che io stavo leggendo.
Tutti gli episodi in questione, infatti, hanno costituito delle prove di fede per gli uomini che li hanno vissuti. Secondo chi scrive, in tali passi della Bibbia è più che mai evidente la complessità del rapporto di fede, biunivoco, fra l’uomo e Dio: l’uomo è e rimane comunque una vittima del peccato originale. Tale caratteristica costituisce un fattore di scontro fra Dio e l’uomo, sul quale, tuttavia, può tranquillamente vincere l’amore divino. Condizione necessaria affinché ciò accada è che l’uomo, consapevole della propria inferiorità di fronte a Dio (il c.d. “timor di Dio”, che costituisce qualcosa di radicalmente diverso dall’atteggiamento ossequioso e remissivo di molti cristiani, quelli che io chiamo i “cristiani – hippy”), coltivi la propria fede, ricercando in Dio, Entità superiore, ciò che gli manca e, quindi, seguendo / affidandosi a quest’ultimo. Tale ricerca, quindi, portando l’uomo a incrociare il cammino di Dio, sancisce l’alleanza di entrambi. Tale legame, tuttavia, deve essere sempre coltivato e rinnovato da parte dell’uomo, pena la sua degenerazione. Al riguardo, le parole di Gesù (Luca, 14-33) sono emblematiche: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. A quel punto fu facile per me rendermi conto del grosso errore in cui io, alla stregua di molti altri “cristiani – hippy”, stavo cadendo: considerare Dio come il classico “amicone”, pronto a perdonare sempre tutto e tutti, “quello dei compromessi”.
Forte di tale nuova consapevolezza, il mio modo di vivere il campo estivo e i miei rapporti con gli altri campisti cambiarono completamente, anche quando si trattò di intervistare il Dr. Samad Qayumi, ex ministro afghano dell’istruzione e della formazione.
Fu un incontro molto interessante e denso di significati. Il Dr. Qayumi, di media statura, i cui tratti mediorientali del viso facevano da cornice a due occhi dallo sguardo molto acuto, con fare alquanto pacato e diplomatico, gesticolando solo per quanto necessario, ci raccontò la propria storia. Dirigente di una grossa impresa afghana e, per questo, molto conosciuto e ben referenziato, fu chiamato dall’allora neo capo del governo a svolgere le funzioni di ministro dell’istruzione e, in particolare, della formazione (professionale), nella speranza di ristabilizzare la situazione politico – economica del Paese, sempre più avviata a una rottura irrimediabile. L’ingerenza sempre maggiore esercitata dai Talebani anche all’interno del governo, cui fecero seguito vere e proprie minacce dirette sia ai singoli ministri sia alle relative famiglie, costrinsero il nostro interlocutore a scappare assieme alla propria famiglia verso l’Europa.
Alcuni fra i campisti sapevano cosa volesse dire abbandonare, fuggire dal proprio Paese. Gli altri, invece, al fine di intuire ciò, avrebbero potuto osservare il velo di tristezza che oscurava la luce degli occhi del Dr. Qayumi ogni volta che qualcuno di noi pronunciava anche solo la parola “Afghanistan”. Il suo sguardo, infatti, abbandonava i nostri volti per dirigersi altrove, oltre la finestra, verso posti a sconosciuti a noi campisti.
Il nostro interlocutore passò un paio d’ore a raccontare a tutti i campisti dell’Afghanistan, della propria famiglia nonché delle loro scelte di vita e professionali operate successivamente all’arrivo in Svizzera. Probabilmente, l’abitudine di fare tali racconti a persone mai conosciute prima, unitamente alla volontà di non rivivere intensamente i momenti più dolorosi della propria vita, avevano col tempo assuefatto il Dr. Qayumi, permettergli di non lasciare trasparire più di tanto le proprie emozioni.
Al contrario, essendo io alla ricerca di un confronto stretto con le altre persone, forse un po’ stupidamente, decisi di rivolgergli, in un solo colpo, qualche domanda provocatoria: “Lei, sia come uomo politico sia come afghano, cos’ha provato quando si è sentito cacciato dalla Sua nazione, quando le istituzioni, rappresentanti il Suo popolo, non hanno saputo difenderla? Si è sentito tradito? Si sente ancora afghano? Tornerebbe in Afghanistan adesso? Si sente ancora in grado di volere e di potere donare qualcosa alla gente dell’Afghanistan?”.
L’effetto da me sperato venne raggiunto immediatamente. Dopo qualche secondo di silenzio, il mio interlocutore, fino a un momento prima tranquillamente seduto dietro a una scrivania, contratti tutti i propri muscoli, inclinò il busto in avanti, congiungendo le mani e fissandomi dritto negli occhi: questo era il Dr. Qayumi che desideravo vedere e dal quale, ne ero sicuro, avrei ricevuto una bella lezione di vita.
Dapprima, il mio interlocutore tenne a precisare di non essere mai stato un vero e proprio uomo politico: l’incarico di ministro conferitogli, infatti, non aveva costituito il culmine di nessuna carriera politica bensì era stato il frutto della scelta di un primo ministro che, per formare un governo che fosse composto di membri competenti, si era rivolto anche alle personalità di spicco della realtà economica afghana, fra cui, appunto, il Dr. Qayumi.
Successivamente, il mio interlocutore mi raccontò ciò che (sperando di non avere tralasciato molti elementi) riassumo qui di seguito: “Io non sono stato cacciato dal mio popolo né dalla mia Nazione. Al contrario, ho dovuto scappare da gente (i Talebani) che, sfruttando la profonda crisi socio – politica del mio Paese, ha usato le relative istituzioni per acquisire potere, schiacciando e/od uccidendo chi non era dei loro o, quantomeno, come loro. Non posso, quindi, sentirmi tradito dal mio popolo in quanto io stesso, sebbene viva in Svizzera da oltre vent’anni, continuo a essere ed a sentirmi afghano. L’essere afghano fa parte della mia cultura, del mio modo di ragionare: fa parte di me. Se potessi, tornerei in Afghanistan a saldare il mio debito con la mia gente, mettendo a disposizione (come ho tentato di fare quand’ero ministro) tutte le mie competenze, anche quelle acquisite qui in Svizzera, accettando di svolgere lavori più o meno umili. Tuttavia, la situazione socio – politica attuale e la mia lunga lontananza dal Paese, nonché la mia età, non mi consentirebbero attualmente di fare qualcosa di utile e/o di venire compreso a fondo da un popolo che, con il passare degli anni, è comunque mutato. Al contrario, non farei altro che costringere la mia famiglia, che qui in Svizzera si trova a bene, ad abbandonare un’altra volta la propria casa per affrontare un futuro incerto”.
Mentre lo ascoltavo, nelle sue parole avvertii la profondità ma, nel contempo, anche la semplicità delle radici dell’animo umano, affondate all’interno di pochi elementi, fra cui quello della propria terra natia e della propria cultura, fattori che, sebbene così diversi, rendono tutti noi uomini molto più simili l’uno all’altro di quanto si possa mai immaginare.
La velocità e la precisione con cui il Dr. Qayumi rispose alle mie domande mi fecero intuire che quella non era la prima volta e né sarebbe stata l’ultima in cui il mio interlocutore, guardando se stesso riflesso in uno specchio o negli occhi di un’altra persona, si sarebbe posto quegli stessi interrogativi.
Dopo avere vissuto quella significativa esperienza, i restanti giorni di campo estivo passarono in fretta e, purtroppo, anche per me arrivò l’ora di dovere salutare sia le missionarie sia i campisti.
Nel giorno della mia partenza le missionarie organizzarono una gita a Fribourg, cittadina distante un’ottantina di chilometri da Solothurn e capitale dell’omonimo cantone. Mi fu spiegato che Fribourg, oltre a essere un’incantevole città medievale, è sempre stata una delle roccaforti del Cattolicesimo in Europa. Infatti, la storia narra che nell’Ottocento le autorità cantonali aderirono alla lega dei c.d. “Cantoni separatisti cattolici”, unione istituzionale posta a difesa, oltre che dei propri interessi politici, anche della religione cattolica contro il dilagante Protestantesimo. Non a caso, all’oggi la cittadina ospita ancora una delle più importanti e famose facoltà di teologia d’Europa.
Passeggiando per i magnifici sali – scendi della cittadina, ebbi ancora modo di scambiare quattro piacevoli chiacchiere con Padre Gabriele, tirando le fila di ciò che avevo appreso durante il mio soggiorno. Fu una discussione molto piacevole, che ci trovò divisi solamente su una questione, da me sempre rimarcata anche a tutte le altre missionarie fin dal giorno in cui le conobbi. Infatti, ho sempre nutrito forti perplessità circa il fatto che la diversità fra gli uomini sia sempre sinonimo di opportunità di crescita e di scambio, come, invece, da loro sostenuto: gli riportai, a titolo meramente esemplificativo, le cronache relative agli scontri avvenuti nella famigerata Striscia di Gaza, in Medio Oriente, oppure, ancora, a Sarajevo. Al contrario, secondo chi scrive, l’incontro con colui che è diverso null’altro è che un fatto, al quale può essere attribuito un valore e/od un fine solamente in funzione di un principio etico – morale – religioso e/o di una ricerca personale dell’altro.
Terminata la discussione, con parecchio rammarico e un po’ di nostalgia salutai tutti, campisti e missionarie, dirigendomi alla volta dell’automobile.
La mia esperienza estiva sembrava essere oramai terminata. Ciononostante, la provvidenza mi aveva riservato un’ultima, grande, importante lezione di vita: mai parcheggiare la macchina in parte ai campanili delle chiese delle grandi città. Essendo anche il campanile della cittadina di Solothurn un famigerato luogo d’incontro di tutti gli esseri pennuti della zona, infatti, ritrovai la macchina ricoperta di una coltre di simpatici “souvenir”, di (inspiegabile) consistenza pari a quella di una spessa lastra di cemento. Sedutomi in macchina, le poche fenditure dello strato grigio che ricopriva il parabrezza assomigliavano indiscutibilmente alle feritoie di un carro – armato. Intenzionato a non mietere vittime lungo la strada, scesi a dare una pulita al vetro. Mentre fregavo l’ampia superficie, vidi la mia immagine riflessa nel parabrezza: ripensai immediatamente a tutti i sorrisi e ai volti che avevo incontrato durante il mio soggiorno, così diversi fra loro. Ripensai anche alle migliaia di chilometri che gli abbracci e gli odori dei ragazzi che avevo incontrato avevano percorso per arrivare fino a Solothurn, per arrivare fino al punto di incrociare la mia strada. Tentai di immaginarmi i luoghi più lontani, più belli, più esotici che si fossero specchiati negli stessi occhi che avevano incrociato il mio sguardo, pensando, infondo, che anch’io, seppur molto indirettamente, mediante gli incontri di quei giorni avevo conosciuto una parte di tutto ciò.
Mentre ancora la mia fantasia viaggiava sorvolando oceani e monti, in un attimo di rinsavimento mi resi conto che la mia macchina stava già solcando le ampie e soleggiate distese erbose della Svizzera, caratterizzate da un verde rubino unico nel suo genere, alla volta dell’Italia. Preso da un forte senso di malinconia, sulle note di una vecchia canzone, “From the beginning”, del gruppo rock “Emerson, Lake & Palmer”, mi rasserenai al pensiero di quanta strada io avrei dovuto ancora percorrere e di quante cose io avrei potuto ancora conoscere, chiedendomi dove mi avrebbe portato il mio prossimo viaggio.
Giovanni Nosari